Achille Funi & Leonor Fini: una storia d’arte e di sentimenti all’ombra di Trieste

foto da Quotidiani locali
Achille Funi, un nome di rilievo dell’arte italiana del secolo scorso, apprezzava Trieste, più di quanto fosse ispirato da Venezia. Ne è convinta Elena Pontiggia, docente all’Accademia di Brera, uno dei più importanti studiosi della prima metà novecentesca, che gli ha dedicato un ampio ritratto, “Achille Funi. Un maestro a Brera” (Libri Scheiwiller, pp. 175, 22.50 euro), per togliere la troppa polvere che si era adagiata sulla memoria dell’artista ferrarese.
Nella ricostruzione della personalità culturale di Funi, c’è uno spazio dedicato al rapporto con Trieste, rapporto sentimentale e artistico. Che ha un’origine particolare, in quanto Funi fu uno dei primi soldati italiani a entrare nella città giuliana il 3 novembre 1918.
Poi, a contribuire all’interesse per Trieste, intervenne la relazione con Leonor Fini, che Funi conobbe nel capoluogo lombardo in occasione di una mostra alla galleria “Milano”, in via Croce Rossa tra via Manzoni e via dei Giardini, allora una delle più prestigiose nel panorama nazionale, dove la pittrice espose insieme a Carlo Sbisà e ad Arturo Nathan. Durante la rassegna milanese Leonor, allora molto giovane perché aveva 22 anni, ebbe modo di incrociare Funi e Mario Sironi, due protagonisti della vicenda di “Novecento”, il movimento fondato da Margherita Sarfatti.
Da lì la liaison, quasi un gioco di parole Funi/Fini. Nel 1930, in viaggio verso Abbazia, la coppia venne a Trieste, dove il maestro dipinse due vedute della città. «Vedute fantasiose, pittura mentale, non naturalistica, reiventata, mitica, dove il tempo si ferma», commenta Elena Pontiggia, che intrecciavano alcuni elementi veri (per quanto filtrati dall’immaginazione di Funi) con richiami mitologici cari all’ispirazione classica dell’artista ferrarese. Uno dei dipinti è conservato a Roma presso la Galleria di arte moderna (Gnam): Trieste è ripresa da lontano, dal primo piano di una banchina inventata sulla quale spicca una statua di Giove o di Nettuno. Sulla riva opposta alcuni palazzi neoclassici - tra i quali sembra riconoscibile la Borsa - e il colle di San Giusto, su cui si stagliano cattedrale e campanile. Nel braccio di mare tra banchina e la rivisitazione del centro alcuni velieri su un mare lievemente mosso.
La seconda veduta triestina è domiciliata a Milano, nella casa museo Boschi Di Stefano nella zona di corso Buenos Aires. Una foto è pubblicata nel libro della Pontiggia a pagina 115: stavolta l’attenzione di Funi si sposta in piazza Unità, anch’essa trasfigurata. «... il grande slargo - scrive la storica dell’arte - si tramuta in uno spazio piccolo come il palcoscenico di un teatro». Il palazzo lloydiano, da una trentina d’anni sede del “governatorato” regionale, viene ristretto dalla mano di Funi alla sola parte centrale, priva delle statue. In primo piano sulla destra del quadro la colonna dell’imperatore Carlo VI, mentre un cavaliere procede al passo nella piazza. Dalle Rive spuntano alcune grandi vele, il mare è soltanto intravvisto. «Accento straniato» commenta la Pontiggia che fa riferimento a tracce dechirichiane e all’opera di Gigiotti Zanini, architetto e pittore di origine trentina stabilitosi a Milano, anch’egli vicino all’esperienza di Novecento.
Da Fiume Achille & Leonor scrissero una cartolina ad Arturo Tosi, amico e collega di Funi, nella quale raccontarono una bugia, sostenendo di essersi incontrati «per combinazione» in riva al Quarnero. Cartolina scherzosa, che ritrae il pittore nelle fauci di uno squalo. In quel 1930 i due viaggiarono molto, a Venezia, a Parigi, a Roma, la loro storia andò avanti per tutti gli anni Trenta e il maestro molto si diede da fare per accreditare la giovane Leonor nelle grandi esposizioni dell’epoca. Nel 1935 Funi tornò a Trieste, chiamato da Umberto Nordio, e lavorò, avendo come collaboratrice Felicita Frai, nell’atrio della casa Ras in piazza Oberdan. Venne realizzato un nudo maschile e una grisaille bianco/nera, raffigurante Amore e Psiche, di cui purtroppo rimane solo un cartone serbato da una collezione privata. A dimostrazione dell’interesse di Funi per Trieste, Elena Pontiggia cita un articolo del 1938 sul “Corriere padano”, quotidiano di Ferrara diretto da Nello Quilici. Il pezzo riguardava Leonor Fini e conteneva alcune considerazioni su Trieste «grande emporio di arte e di cultura internazionale, senza stretti legami con la tradizione, aperta a tutte le novità». —