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Luca Marinelli: «Senza crescere ci si perde»

Luca Marinelli in «Martin Eden»
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Luca Marinelli in «Martin Eden»

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 35 di «Vanity Fair», in edicola fino al 3 settembre.

Dalle parole scritte alle immagini in movimento: «Quando giri un film basato su un libro, il libro, a un certo punto, tende a sovrapporsi. Non sai più cos’è il romanzo e cos’è la sceneggiatura. Io oggi ricordo la fine di Martin Eden di Jack London: quella conclusione struggente, con lui in cabina che legge quella poesia e che decide della sua vita».

Luca Marinelli, protagonista del Martin Eden di Pietro Marcello, in concorso alla prossima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e al cinema dal 4 settembre con 01 Distribution, mette insieme ricordi ed emozioni, e gli dà un ordine preciso: ogni cosa inizia da lì, dal romanzo dello scrittore americano. «Quella che era l’anima del libro, che secondo me sta al di sopra di qualunque tipo di discorso, politico, sociale e idealistico che sia; quell’anima lì, dicevo, è stata rispettata. Perché è incarnata nel personaggio di Martin Eden. E poi quando traduci un libro in un film succede che alcune cose prendano un’altra forma: è normale in un adattamento». Nel caso di questo film, dice Marinelli, tutto è partito dal punto di vista di Marcello, dalla sua visione: «Che forse non è come quella che può avere qualcun altro o come la mia, perché è una visione che appartiene al regista: è la visione dell’artista Pietro Marcello. Le prime sceneggiature erano sicuramente diverse, erano più lunghe, più fitte, piene di riferimenti al libro. La primissima, se non sbaglio, era lunga quasi 300 pagine. E questo perché eravamo di fronte a un capolavoro, e non si voleva tralasciare niente».

Continua a leggere dopo la clip in anteprima del film >>

Questo film poteva essere diverso?
«No, questo film è come doveva essere. Ma con un libro così si può fare qualunque cosa: uno spettacolo teatrale di 12 ore, un film, un cortometraggio. Martin Eden è uno dei libri più belli che siano mai stati scritti. Il cinema impone dei tempi e delle misure diversi dalla narrazione scritta; l’equilibrio che Pietro e Maurizio Braucci, co-sceneggiatore, hanno trovato e il lavoro che hanno fatto sono stati eccellenti, secondo me».

Partiamo da quando le hanno proposto Martin Eden.
«Mi ricordo le mie lacrime mentre guardavo Bella e perduta; ricordo la mia commozione, e ricordo anche che subito dopo aver finito di vederlo mi dissi che sarebbe stato bello lavorare con questo regista. Era il 2015. Tre anni dopo mi chiamano, e mi dicono che Pietro Marcello mi voleva incontrare. Immagini la felicità. Sapere, poi, che questo film sarebbe nato dal libro di Jack London mi ha emozionato ancora di più».

Che cosa l’ha convinta ad accettare?
«Martin Eden è un essere umano di grande sensibilità, di grande curiosità e di grande empatia; ha un’enorme voglia di scoprire, di vedere, di toccare con mano. Subisce però innumerevoli delusioni. Scala una montagna solo per apprendere, una volta giunto in cima, che vi risiede un triste accampamento, e che la cosa migliore non è mai stata arrivare fin lì, alla meta, ma forse proprio la partenza. Il viaggio».

Ed è stato difficile percorrere questo viaggio?
«È una domanda che mi sono posto anche io, e la risposta che mi sono dato è sia sì che no. No, perché stando accanto a Pietro, a Maurizio, ai colleghi e alle colleghe e a tutte le persone che hanno collaborato al film ho trovato la giusta spinta e il giusto sostegno per arrivare al personaggio. Ma le difficoltà, è chiaro, ci sono sempre. Quello che volevo veramente capire era Martin Eden. Mi sono abbandonato alla prima sensazione che ho avuto leggendo il libro e la sceneggiatura».

Che sensazione era?
«Un’emozione gigantesca. Questo personaggio parla direttamente a ognuno di noi perché ognuno condivide qualcosa con lui. Ognuno di noi ha voglia di fare, di esistere. Di giungere a un obiettivo. Solo che poi ci si scontra con degli ostacoli che ci fanno perdere – in parte o in tutto – la speranza».

Ma quand’è scattata la scintilla?
«Sono sempre stato appassionato da scrittori come London o Stevenson. Avventurieri, capaci di creare mondi, di dare vita a personaggi con gli occhi aperti verso la società che li circondava. Entrare in una vita del genere, una vita dove il mare è così presente, una vita fatta di viaggiare, di vedere, fatta di pura passione, mi incuriosiva molto. E poi c’era Napoli».

Rispetto al libro di Jack London, il film di Pietro Marcello è una riscrittura ambientata nel capoluogo partenopeo.
«Non avevo mai vissuto tutto questo tempo a Napoli; e non l’avevo mai conosciuta così tanto. Non sono ancora riuscito a capirla fino in fondo; non completamente. Napoli è un posto a parte. Sono arrivato ad amarla. Napoli è un popolo intero. Qualcosa di fantastico. È un luogo con una grandissima identità. Un’identità molto forte. Pensi alla lingua: non è un dialetto, è una lingua. E poi incontri persone che ti fanno rendere conto di quanto sia bello essere napoletano: quanto sia accogliente, quanto sia affascinante, quanto sia profondo. Napoli, per me, è stata una grandissima scoperta».

La sensibilità è una condanna?
«Non lo so. Da una parte sì, può farti soffrire di più. Ma non la vedrei come una condanna. La sensibilità permette di vedere il mondo; ti porta a rispettare quello che ti sta attorno».

Ma porta con sé anche la solitudine.
«Martin Eden si allontana da tutto e da se stesso: non riesce più a stare in contatto con niente e con nessuno, è deluso».

In questo film, trova spazio anche lo scontro tra la classe degli intellettuali e il cosiddetto popolo.
«Penso che il vero intellettuale, come era Pasolini, riesca a mettersi allo stesso livello della società, a guardarla negli occhi, a parlare all’uomo comune senza essere supponente, solo mostrando quello che c’è: quello che succede».

A un certo punto, si ritrova a condividere la scena con Carlo Cecchi, che interpreta Russ Brissenden.
«Mi sono molto emozionato perché ho ritrovato il mio maestro. Ed è stato bello essere con lui lì, sul set, dopo più di sei anni dall’ultima volta in cui avevamo recitato insieme».

Diceva che si è emozionato.
«Perché nel film interpreta il mentore di Martin Eden, e Carlo è stato un mentore anche per me. È stato un vero regalo».

Quante cose sono cambiate in questi anni?
«Tante».

E lei? Lei è cambiato come attore?
«Non lo so, lo giuro. Ma forse ero meglio prima (ride, ndr)».

In che senso?
«Ho cominciato con il teatro, dove non c’è una rete di salvataggio, non c’è “stop, la rifacciamo!” e non c’è la possibilità di fermarsi, ricominciare, ripensare. Mi manca quel coraggio».

Il teatro è un tormento o un’ossessione?
«Non è mai un tormento né un’ossessione. A volte di notte però sogno di salire sul palco e di non ricordarmi più niente».

Forse è il cinema di oggi che tende a essere poco coraggioso.
«Secondo me sta vivendo un nuovo periodo. E non è un caso che Martin Eden di Marcello arrivi proprio adesso, in questo momento. Sicuramente si potrebbe dare voce a molte più persone. È persino quella, se vuole, una questione di coraggio».

In Martin Eden si parla anche di talento e costanza. Cos’è più importante, secondo lei?
«Vanno di pari passo. Il talento è la prima cosa che si vede. È la scintilla primordiale. Ma non ci si può affidare unicamente a quello. Bisogna essere curiosi, mangiarsi la vita, viverla fino in fondo, intensamente e consapevolmente. Ma per viverla, bisogna anche impegnarsi: e bisogna essere preparati».

Bisogna leggere.
«Per me un libro è sempre una vittoria. Perché sei stato altrove e hai vissuto una storia che è diversa dalla tua».

Lei che tipo di lettore è?
«Non mi definirei un lettore appassionato: ma più cresco, più divento grande, più invecchio e più leggo. Perché mi rendo sempre più conto di quanto sia bello».

La lettura non è solo un passatempo.
«Thoreau dice: “Come se si potesse ammazzare il tempo senza ferire l’eternità”. È importante non perdere tempo; ma è importante farlo senza farsi venire angoscia o paura. Bisogna esserci, starci, vivere il momento. Senza però esagerare».

Quando era più giovane – quand’era bambino – che tipo era?
«Sono sempre stato circondato da persone curiose. Anche i miei amici, quelli che avevo da piccolo e quelli che ho ancora adesso, sono curiosi. Ci piaceva muoverci, girare, stare insieme; vivevamo la strada. Ci piaceva anche ascoltare musica, leggere fumetti e libri, e vedere film».

E la curiosità si è trasformata presto in fascinazione.
«La recitazione mi ha sempre affascinato. E solo a un certo punto sono riuscito a trovare il giusto coraggio per provarci. E non le so dire perché: davvero non lo so. In Accademia si ripeteva sempre questa frase: “giocare seriamente”. E forse è stato questo a interessarmi; oppure no».

Prima parlavamo di maestri. Chi sono stati per lei?
«Persone come Carlo Cecchi o come Anna Marchesini. Sono stati dei momenti, degli incontri, molto importanti».

Come entrò in contatto con la Marchesini?
«Con lei studiammo per tre mesi all’Accademia, e fu bellissimo perché per la prima volta scrissi qualcosa di mio. Ognuno di noi, ognuno degli studenti, doveva scrivere qualcosa su se stesso, partendo dalla sua carta d’identità – questo era il compito iniziale. Ed era, mi creda, difficilissimo».

Che cosa la colpì di lei?
«L’energia, la dedizione, la bellezza. Mi ricordo i momenti con lei, le frasi meravigliose che diceva. Quello che mi ha sempre affascinato vedere era la passione che ci metteva».

Altri maestri?

«Mio nonno. Mi è sempre piaciuto il lavoro che faceva: era un falegname. In Accademia ci ripetevano tante volte: “bisogna essere artigiani”. E io pensavo sempre a lui».

Che cosa le rimane, alla fine, di Martin Eden?

«Il senso della collettività. La passione. L’importanza di guardarsi intorno. Di guardare sempre agli altri e a se stessi. L’avventura della vita, e la meraviglia che essa rappresenta. Quello che lacera profondamente Martin Eden è tradire se stesso ed essere deluso dai suoi stessi sogni. Noi possiamo lottare contro questo solo se siamo fedeli a noi stessi, alle nostre convinzioni, ai nostri luoghi di origine. E poi, sa, rimane tutto il resto: rimane tutto quel mondo».

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