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Nessuno può essere pronto a una guerra cyber

In questo 2025 che giunge al termine il tema dominante è stato la guerra. Una ovvia constatazione, molto meno banali, invece, dovrebbero essere le riflessioni che l’accompagnano perché viviamo nell’epoca del conflitto ibrido non perché mescoli strumenti diversi, ma perché confonde le categorie con cui siamo abituati a interpretare la guerra stessa. La confusione deriva dalla convergenza dell’universo digitale con quello fisico; dalla pervasività del primo all’interno del secondo. Nel mondo fisico la guerra è sempre stata un fatto riconoscibile. C’è un prima e un dopo, un confine che viene violato, un nemico che prende forma con bandiere e uniformi. Nel dominio digitale tutto questo evapora. L’attacco non coincide con l’inizio delle ostilità, perché non c’è un inizio vero e proprio. È una condizione permanente, uno stato latente che ogni tanto emerge in superficie. La pace, semplicemente, smette di essere una categoria utile. Questa ambiguità non è un difetto del linguaggio, ma una caratteristica strutturale del cyberspazio. Internet è un altro mondo, costruito su regole che non hanno nulla a che fare con la fisica, con la geografia o con la biologia, pur scimmiottandone alcuni tratti. In questo ambiente i confini non esistono, la distanza non conta e il tempo si comprime. Continuare a interpretarlo con le categorie della guerra tradizionale è come cercare di misurare la temperatura con un righello: lo strumento non è sbagliato, è semplicemente inadatto. Se non bastasse, c’è poi un secondo elemento che contribuisce a questa confusione: l’attribuzione. Nel mondo reale sapere chi ti ha colpito è il primo passo per reagire. Nel dominio cyber, invece, il volto dell’attaccante è spesso sfocato, quando non del tutto invisibile. Stati, gruppi criminali, operazioni sotto falsa bandiera convivono in un ambiente in cui sentiamo soltanto un rumore di fondo. Così senza un nemico chiaramente identificabile, anche l’idea stessa di guerra perde consistenza. Infine esiste uno squilibrio strutturale tra attacco e difesa. Nel cyberspazio l’attaccante ha sempre un vantaggio iniziale: sceglie il momento, il bersaglio, la tecnica. Il difensore deve proteggere tutto, sempre, sapendo che basta una singola “porta o finestra” perché qualcuno entri. Non è una questione di bravura o di investimenti, ma di geometria del sistema. Ed è per questo che dichiararsi “pronti” a una guerra cyber suona più come una formula politica che come una realtà tecnica. Gli Stati lo sanno, ma faticano ad ammetterlo. Dichiararsi “cyber ready” è una formula politicamente utile, tecnicamente fragile. Le infrastrutture digitali su cui poggiano le nostre società sono complesse, stratificate, spesso costruite nel tempo senza un disegno unitario. Energia, trasporti, sanità, finanza: tutto è interconnesso, tutto dipende da sistemi che devono funzionare senza interruzioni. Difenderli significa inseguire una perfezione che, per definizione, non è raggiungibile. In questo scenario la preparazione assume un significato diverso. Non è la promessa di invulnerabilità, ma la capacità di assorbire l’impatto, di continuare a funzionare, di riprendersi in fretta, ma oltre che resilienti è necessario essere “resistenti” perché il fronte, nel cyber, passa anche dalle scrivanie, dalle abitudini, dalle routine quotidiane. La guerra ibrida non punta a distruggere, ma a logorare. Non è una “guerra lampo”, ma l’erosione lenta del nemico. Colpisce le infrastrutture invisibili su cui poggia la vita quotidiana, rendendo fragile ciò che credevamo solido. E mentre cerchiamo di incasellarla in definizioni rassicuranti, lei continua a sfuggirci. Forse il vero problema non è che la guerra sia cambiata, ma che siamo noi che continuiamo a vederla attraverso le stesse lenti degli ultimi 4 mila anni. Tuttavia, quando le categorie smettono di funzionare, non è il mondo a essere sbagliato: siamo noi a dover imparare una nuova lingua per leggerlo.

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