“Giornale di uno straniero a Parigi”: il diario francese di Curzio Malaparte, viaggiatore dell’io e testimone del tempo
Straniero in una patria che non è più Europa. Curzio Malaparte ha immerso i suoi scritti nell’interventismo, nel Fascismo, poi nell’inchiostro degli alleati, in quello dei comunisti sospinto da Togliatti e infine nel cristianesimo. Un dado dalle facce infinite lanciato sul tavolo dell’artista. «La miglior penna del regime» lo definì il liberale Piero Gobetti, ma non bastano queste cinque parole per racchiudere il maledetto toscano. Leggerlo è trovare un caleidoscopio di colori e sapori capaci di mostrarci quello che siamo, in fondo, ancora. Giornale di uno straniero a Parigi (425 pp.; 25,00€) edito da Adelphi, con la curatela di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, è un testo scritto da Kurt Erich Suckert, il suo suo vero nome, tra il 1947 e il 1948 durante un lungo soggiorno francese. Redatto quasi totalmente usando la lingua francofona – era pensato per l’editoria parigina – è stato ripubblicato con una nuova traduzione accompagnata per la prima volta dall’edizione originale in lingua. Mentre l’edizione italiana iniziale, datata 1966, era stata realizzata dall’editore Vallecchi grazie al lavoro del critico letterario Enrico Falqui.
Un esilio finito per Malaparte che dopo quattordici anni abbraccia la Francia. Una liberazione per tornare a vivere e respirare, eppure nelle parole di Camus e negli sguardi di Mauriac vede l’aria del rimprovero. Perché come ricorda Maurizio Serra l’autore di Prato giunge «a Parigi nel momento in cui il pregiudizio anti-italiano ha toccato l’apice (…) La ferita dell’assurdo e funesto attacco di Mussolini contro la Francia, il 10 giugno 1940 (…) si ravviva alla Liberazione». E le persone, spesso anche gli intellettuali più fini, conoscono solo le etichette. Fascista una volta, fascista per sempre. Così lo sguardo di Curzio diventa un viaggio dentro il suo “io”.
Qui nel 1931 aveva scritto, sotto quel cielo parigino che sembra crollarti addosso, Tecnica del colpo di Stato che gli aveva dato la fama internazionale, ma nella traduzione italiana di due anni dopo anche l’esilio. Il libro aveva colpito nella forma e nella sostanza il Duce, ma non era piaciuto nel quartiere generale di Berlino. Hitler non approvava la scrittura diretta e senza filtri che attaccava, principalmente, le modalità della presa di potere del nazionalsocialismo in Germania. E così iniziò il secondo tempo di Malaparte al confino. Un tempo che lo avrebbe condotto al Corpo Italiano di Liberazione durante la Seconda Guerra Mondiale. Restiamo, ancora un attimo, sulla tecnica per ottenere il potere. Nelle pagine finali del testo Malaparte intaglia il profilo di Mussolini. «La sua educazione marxista non gli permette di avere certi scrupoli tolstoiani: egli non ha imparato le buone maniere politiche a Oxford, e Nietzsche lo ha disgustato per sempre del romanticismo e della filantropia». Ecco la trincerocrazia emersa dalle trincee della Grande Guerra.
Eravamo, restiamoci, a Parigi. C’è il letterato polacco Sandauer che vorrebbe occidentalizzarsi e diventare francese. Ma nell’alveo dell’identità Malaparte lo esorta a «non commettere l’errore di credervi possibile di diventare uno scrittore come noi. Sareste un bastardo come ce ne sono tanti». Diventare ciò che si è. I giorni sul diario proseguono, cadenzati, tra Pirandello e le intelligenze di Francia. Qui l’autore riconosce la sua patria d’elezione: la Francia. Ancora lo spazio per le donne transalpine che non amano più scoprirsi le spalle, la femmina di Proust è lontanissima. Poi l’anfratto delle ostilità. «Mi si biasimi pure, ma sono un uomo, e mi piace la guerra», che è preludio al racconto che lo ricongiunge al conte Agustín de Foxá.
Malaparte rammenta di averlo «reso celebre con Kaputt», ma non è il tempo della vanagloria. Il ricordo lo porta al febbraio 1942, durante il secondo conflitto mondiale, sul fronte della Kannas, tra il lago di Ladoga e Leningrado, mentre si trovava «al seguito del generale Edqvist, che comandava una divisione finlandese in quel tratto delicato del fronte». Qui il contingente di Finlandia catturò diciotto prigionieri spagnoli e il racconto delle settimane a venire è l’emblema di come nell’esistenza, ancor di più nella battaglia, ripudi le schematizzazioni a priori.
Questi combattenti iberici erano dei giovani che i russi portarono sotto la bandiera dell’Urss all’indomani della disfatta sovietica nella Guerra civile spagnola. E questi ragazzi sotto il comunismo intrapresero la loro vita. Non volevano arrendersi e l’autore iniziò a intrattenere rapporti con loro, chiamando il ministro di Spagna de Foxá per trovare una soluzione. Il tempo scorreva incrociando anche un funerale. L’ateo caduto spagnolo venne salutato per un’ultima volta col pugno chiuso dai suoi commilitoni, mentre i finlandesi spararono alcuni colpi di fucili al cielo e un prete italiano benediceva la salma da lontano, per non invadere la volontà del morto. De Foxá? Seguendo i dettami di Franco salutava romanamente la salma. Ci sarà ancora il tempo per il tradimento di uno dei soldati e il suo ritorno in Spagna, ma in questo racconto c’è tutta la verve situazionista ante litteram della vita di Malaparte.
Dopo il bando in Italia a Parigi vive il tedio della vita, come a Firenze, e scrive questo giornale da straniero. «Cercherò dunque di non dire – lo devo a me stesso, ai miei amici francesi, ai francesi che rispetto, che onoro, che amo – cose che possano irritarli. Benché la verità, la sincerità, soprattutto la sincerità, mi paia necessaria, in Europa, soprattutto in Francia, e sulle labbra di un amico». Siamo spinti dove sembra ineluttabile subire le onde della storia senza essere più in grado di determinare il destino. Tra le pagine ritorna Albert Camus che vuole, metaforicamente e non, fucilare i Bottai e anche i Malaparte perché tutto viene perdonato tranne, comunque la si guardi, di aver vissuto dalla parte dei vinti.
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