Nel 2026 dobbiamo tornare a insegnare una sola cosa: l’empatia
In questo Paese non esiste più umanità. Non esiste più chi ti guarda negli occhi con sincerità; chi fa il suo lavoro senza badare ai propri interessi ma solo a quelli della collettività. Non c’è più uno Stato che senti vicino ma hai la sensazione che sia sempre pronto a fregarti, a condannarti, a farti tacere.
Uso le parole della scrittrice Mariapia Veladiano: “La più grave disabilità è la mancanza di empatia”. Per me ha ragione da vendere. L’empatia è una competenza sociale che questo Paese rischia di perdere o forse ha già smarrito. Ha vinto la burocrazia. Hanno vinto gli occhi e le mani gelide del funzionario. Ha vinto l’autovelox. Ha vinto la marca da bollo. Hanno vinto le sale d’attesa davanti alle porte che non si aprono mai. Hanno vinto i corridoi bui e stantii di certi uffici. Ha vinto il “Dottore” che usa il povero parcheggiatore abusivo anche per chi una laurea in tasca non ce l’ha. Ha vinto la riverenza.
La captatio benevolentiae e il “leccaculismo” tanto da esistere un libro dal titolo Il manuale del leccaculo. Ha vinto chi adotta nella vita quel “lassa ire” alla siciliana e chi volta la faccia.
Ha perso il Sessantotto. Ha perso la voglia di ribellarsi. Ha perso chi fa il suo dovere a ogni costo. Hanno perso l’impiegato, il calzolaio, i vicini di casa che si prestano il sale, i bambini che in aula chiedono persino se possono bere e quelli che non possono più chiudere la finestra perché può essere pericoloso. Hanno perso le campane messe a tacere la notte. Hanno perso gli occhi che sanno ancora piangere e i piccoli cinema di quartiere. Hanno perso le edicole e le osterie che non trovi più. Hanno perso le emozioni per lasciare spazio alle maschere che mettono in scena ciò che vuole il burattinaio.
A ciascuno di noi il compito di resistere ancora una volta. Magari l’ultima. Diceva Paolo Borsellino: “Ognuno deve fare la sua parte: ognuno nel suo piccolo ognuno per quello che può, ognuno per quello che sa”.
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