Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 16 maggio
I DANNATI | SAMAD | LE RAVISSEMENT | NIENTE DA PERDERE
I DANNATI
Regia: Roberto Minervini
Cast: Jeremiah Knupp, René W. Solomon, Cuyler Ballenger, Noah Carlson, Judah Carlson, Tim Carlson, Bill Gehring
Durata: 88
Passato pochi giorni fa a Cannes (Un Certain Regard), arriva in sala il nuovo film di Roberto Minervini, “I dannati”. Che è anche primo vero film di finzione del regista marchigiano (ma americano di adozione, essendosi trasferito negli Usa ormai più di vent’anni fa).
È il 1862. Nel pieno della guerra di Secessione, un manipolo di volontari dell’esercito nordista viene inviato a presidiare le terre inesplorate dell’Ovest. Sono uomini (e ragazzi) arruolatisi per le più diverse ragioni che condividono la condizione esistenziale della guerra, in un territorio vergine che sembra un limbo, anche se ogni tanto il rumore delle armi si fa sentire.
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Minervini, pur approcciandosi alla finzione (persino a quella più smaccata di impianto storico e di costume) non abdica dal proprio cinema di osservazione, anzi lo sublima nella forma di una messa in scena documentaristica e, allo stesso tempo, creativa.
Questa “ibridazione” è anche l’aspetto più interessante del film, quasi che fosse l’unico sguardo possibile per raccontare, appunto, la condizione esistenziale (quella più disumana) dell’essere in guerra.
Nel contemplare questi uomini di frontiera che riflettono sulla loro stessa esistenza, che sono coinvolti in una battaglia contro nemici invisibili, che pregano o che si interrogano sul senso di uno scontro fratricida, Minervini si astrae dall’immaginario bellico, lo priva di ogni eroismo e sconfina in una sorta di western dell’anima che parla all’oggi con un pessimismo di fondo sin dal titolo (che rimanda ad una condanna inappellabile), pur aprendosi, nel finale, ad una sequenza di candore, quasi di speranza.
Se la forma del film ne è anche la sostanza più profonda, “I dannati” sconta, invece, qualche forzatura nella scrittura che, a tratti, è persino pleonastica rispetto alle immagini che non avrebbero bisogno di altri commenti. Resta, comunque, una testimonianza suggestiva di un cinema della realtà di cui Minervini è, senza dubbio, uno dei più interessanti cantori. (Marco Contino)
Voto: 6,5
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SAMAD
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Regia: Marco Santarelli
Cast: Mehdi Meskar, Roberto Citran, Marilena Anniballi, Luciano Miele, Abdessamad Bannaq
Durata: 78’
“Samad” è il primo lungometraggio di finzione di Marco Santarelli, regista, produttore e autore televisivo, che prende il titolo dal nome del suo giovane protagonista, un marocchino, ex spacciatore, che cerca, dopo il carcere, di trovare il proprio posto in una società nutrita di pregiudizi, divisa culturalmente e nel credo religioso (lo stesso Samad è figlio di madre cristiana e padre musulmano), in cui anche gli ex compagni di malavita, ancora in prigione, sono un ostacolo al reinserimento.
L’unica figura che si affanna a trovare una mediazione tra realtà così confliggenti è un prete (Roberto Citran) che lavora con i detenuti del carcere e che accompagna Samad nel difficile cammino di redenzione.
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Il film d’esordio di Santarelli nasce dal suo precedente documentario «Dustur» sul carcere di Bologna dove un gruppo di detenuti musulmani partecipa a un corso sulla Costituzione italiana, in costante confronto con un monaco di fede cattolica, padre Ignazio, che, per avere una relazione più diretta con i detenuti, ha imparato a parlare l’arabo.
Da qui l’idea di raccontare la storia di un uomo che non vorrebbe avere alcuna etichetta (arabo, musulmano, cristiano, spacciatore) se non quella che gli deriva da una dignità lavorativa che ribadisce con forza nel finale del film.
“Samad” non è un film sul carcere - anche se la vicenda è quasi interamente ambientata nella biblioteca del penitenziario, dove, a un certo punto, la situazione (tra Samad, i detenuti, il sacerdote, una guardia carceraria e una giornalista) precipita.
È un’opera su una urgenza e sulla distanza tra mondi diversi. Temi difficili e coraggiosi che il regista affronta mettendoli in scena come un pièce teatrale, assumendosi il rischio di una recitazione “innaturale” e una canonizzazione dei personaggi un po’ estrema (le guardie carcerare insensibili e razziste, la direttrice del penitenziario vittima del sistema, lo stereotipo del detenuto balcanico e magrebino). (Marco Contino)
Voto: 6
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LE RAVISSEMENT – RAPITA
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Regia: Iris Kaltenbäck
Cast: Hafsia Herzi, Alexis Manenti, Nina Meurisse, Younes Boucif
Durata: 97’
Altra opera prima di tutto rispetto, “Le ravissement” (Il rapimento nell’originale) insiste su un tema caro al cinema francese, ovvero quello della maternità negata o, appunto, rapita.
Come già nel caso degli apprezzati “Saint Omer” di Alice Diop, pluripremiato a Venezia 2022, e al recentissimo “Senza prove” di Béatrice Pollet, anche “Le ravissement”, che a sua volta ha ottenuto riconoscimenti in molti festival come a Torino, indaga nelle pieghe più oscure dell’animo umano.
Cosa spinge un’ostetrica brava e di successo, con qualche problema in amore, a inventarsi una vita parallela? Dopo aver contribuito a far nascere in casa, non senza qualche problema, la bambina della sua migliore amica Salomé, Lydia comincia a rendersi disponibile per tenere la piccola.
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Un giorno, mentre la accudisce, incontra Miloš, con cui tempo prima aveva passato una notte dopo la fine della sua precedente relazione. Per legarlo a sé, decide di spacciare la figlia di Salomé come sua e convince Miloš che è lui il padre biologico della neonata.
Ne deriva una serie di fraintendimenti e invenzioni che Lydia alimenta in modo quasi inconsapevole, ma che la portano molto lontana dalla realtà.
Iris Kaltenbäck è un’esordiente (premio Lumière), 35enne, che presentando il suo film alla Semaine de la critique, a Cannes, disse di aver preso il soggetto da un articolo di giornale e di aver fatto il film per capirla, senza avere risposte.
In effetti “Le ravissement” segue la sua protagonista, cercando di non schierarsi, al di là dell’indubbia presa di distanza dalla follia di Lydia. L’indagine di Kaltenbäck è silenziosa quanto i modi della sua musa, l’attrice franco-tunisina Hafsia Herzi (già protagonista dei film di Abdellatif Kechiche da “Cous Cous” a “Mektoub, My Love”), che affida all’espressività visuale la gran parte della sua parte. Un silenzio e una sicurezza apparenti che nascondono invece forme di repressione, fragilità, incertezze esistenziali che la regista trasporta invece con mano sicura sullo schermo, attraverso un’estetica del dolore non sempre condivisa dalle nostre parti. (Michele Gottardi)
Voto: 7
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NIENTE DA PERDERE
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Regia: Delphine Deloget
Cast: Virginie Efira, Arieh Worthalter, Félix Lefebvre, India Hair, Alexis Tonetti
Durata: 112’
Opera prima di una regista che passa dal cinema della realtà alla realtà del cinema di finzione, “Niente da perdere” racconta una storia di burocrazia e di difficoltà esistenziali e affettive di una madre single con due figli, il più piccolo dei quali, Sofiane, otto anni, desta non pochi problemi.
Così quando un giorno, in assenza della madre, si ustiona friggendo le patatine, intervengono i servizi sociali e lo mettono in una casa famiglia. Decisione che Sylvie non accetta e che cerca in ogni modo, burocratico e affettivo, di contrastare.
Errori sentimentali d’un lato e rigidità giuridica dall’altro costituiscono una sintesi difficilmente raggiungibile. Perché ognuno ha una posizione e un ruolo da difendere, ma quella che veramente non ha niente da perdere è Sylvie, incarnata da una bravissima Virginie Efira.
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Lo spettatore resta in bilico tra un’indubbia partecipazione al dramma della madre e un distinguo per il suo comportamento pressapochistico, non riuscendo d’altro canto ad abbracciare le algide assistenti sociali, stese dai regolamenti, “summum jus, summa iniuria”.
Ancora una volta il cinema francese mostra una predilezione verso la sociabilità, verso le condizioni più marginali della popolazione attiva, che non sono comuni nelle diverse cinematografie europee, di certo non in quella italiana. C
ome anche per “Le ravissement” di cui parliamo sempre in questa rubrica, il cinema transalpino ha un’attenzione verso le pieghe più nascoste dell’animo umano, anche in quelle forme estreme che l’uomo manifesta come animale sociale, sapendole trattare in modo mai banale, più spesso, come in questo caso, intelligente. (Michele Gottardi)
Voto 6,5