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Venezia che scompare con la sua grandezza. Tutte le figure che non trovano un erede

La trasformazione

Da una parte i morti, i tantissimi morti dell’anno 2020, dall’altra gli inesistenti. Da una parte i troppi morti di una piccola città, che è stata una grande città, una città-mondo, quando per secoli è stata vissuta da gente in una certa misura simile a quella che se n’è andata; dall’altra gli inesistenti, coloro che non si chiedono il perché di quelle morti e non possono farlo perché non sopportano pensieri, ricordi, affetti, non ne sono capaci. Gli inesistenti se non sono già la maggioranza lo diverranno a breve, infatti crescono e si diffondono assieme al virus, anzi, ai virus d’ogni genere, compresi i virus immateriali, perché oltre che inesistenti sono soprattutto incontinenti quando si tratta di non rispettare gli altri. Lo sono perché non possono capire il male che fanno. Si può però disprezzarli con le parole di un grandissimo poeta, Cees Nooteboom: «Sono esseri umani anche se non lo credi. Bassifondi dell’evoluzione, con il pelo che cresce su per la schiena».

Ma serve a qualcosa parlare così di esseri umani del tutto inesistenti? E per intendere bene cosa intendiamo per esistere, per esempio in una comunità, in un qualunque paese, o nella nostra città, si fa prima e meglio citando poche righe di “ Gente di Dublino” di James Joyce. Credo che “I morti” sia il racconto che chiude i Dublinesi, ed è lì che uno dei convenuti al ballo annuale delle signorine Morkan dice: «Ci sono sempre in riunioni come questa pensieri più tristi che ci si ripresentano alla mente: pensieri del passato, della gioventù, di cambiamenti, di volti assenti di cui sentiamo la mancanza qui stasera».

Volti assenti di cui sentiamo e sentiremo la mancanza qui a Venezia o forse che no in molti altri luoghi?

Chi potrà sostituire allora Doretta Davanzo Poli con sentimento e proprietà biografica ricordata dall’Ateneo Veneto? «Ha dedicato l’intera sua vita allo studio del tessuto antico in tutte le sue più inarrivabili espressioni artistiche». Se c’era da sapere il nome dei tessuti e dell’abito indossati da una cortigiana dipinta da Paris Bordon, e lo stesso per i costumi degli abiti indossati dalle dame di Spilimbergo in alcuni ritratti di Tiziano, oppure cosa avessero sul capo i due sposi vincolati per sempre da Lorenzo Lotto, è a lei che bisognava rivolgersi. Poteva capitare che uno studioso, uno storico dell’arte, volesse capire cosa significasse un damasco rovan in 4 cavezi in tutto, o cosa fossero gli orsogli paesani, non gli restava che affidarsi alla sua sconfinata conoscenza di quanto era appartenuto alla storia e all’estetica della civiltà veneziana e non solo. Una città non sopraffatta dagli inesistenti dovrebbe far rivivere Doretta Davanzo Poli ripartendo dai suoi studi, dalle sue ricerche, dai suoi libri, da corsi universitari a lei e alle sue dotte passioni dedicati.

E quale storia quella della famiglia di Renzo Inio! Scomparso a metà dicembre portandosi via una lunga storia, una storia lunga secoli, più lunga della più lunga corda da lui creata nell’epopea veneziana e mai urlata vissuta dalla Corderia Inio. Roberta Brunetti, giornalista non distratta, ha scritto: «L’ultima sede della Corderia fu quella acquistata nel 1848 alla Giudecca, di fronte alla Palanca: un capannone lungo 200 metri, con annessa calle, perfetti per stendere i fili di canapa e lavorare il cordame». Un tempo città di mare e non soltanto di crociere, Venezia viveva di navigazioni che rendevano un grande utile «ai pescadori, marinari, artesani, como remari, squeraruoli e cordaruoli».

Sì, perché al tempo di Sanudo Renzo Inio lo avrebbero chiamato cordaruolo e nessuno si sarebbe dimenticato delle fantastiche macchine in legno che il vecchio artista in corde cedette al Comune nel 1995, sperando in una sorta di museo-laboratorio. Dovrebbero trovarsi abbandonate chissà dove nell’Arsenale, ma se il presidente della Biennale, Roberto Cicutto, volesse contribuire nel salvare quei stupefacenti “avanzi” di una lunga, grande storia (i macchinari lignei del cordaruolo Inio), sono certo che saprebbe trovare un altro Kounellis, che con quelle antichità potrebbe far conoscere agli esistenti di tutto il mondo una emozionante poesia visiva di Venezia per Venezia. Ancora dal libricino “Addio” di Nooteboom appena pubblicato: «Le ho viste andarsene, le persone della mia vita, uscire lentamente dalla mia e dalla loro esistenza». S’intende, le persone della nostra vita di veneziani che ci illudiamo ancora di saper essere esistenti.

Così Mario Messinis che ha spianato infiniti sentieri per la musica antica e contemporanea a Venezia e nel mondo; sì, Mario, lui stesso un’istituzione avendone dirette molte tra le più prestigiose, e che ricordo con il suo veggente sorriso “greco” nella sapienza dell’ ascolto da quella che fu la “sua” poltrona alla Fenice.

E poi Giuseppe Maria Pilo nato nel 1929 e di cui Mina Gregori disse: «L’arte a Venezia e nel Veneto; l’arte in Europa. Sono queste le due polarità entro le quali si è mossa l’attività instancabile di Pilo». Impossibile infatti dire di cosa e di chi non si sia appassionato questo storico dell’arte.

Restando nell’arte, l’addio di Franco Renzulli, pittore alla continua, perché ogni giorno rinascente, ricerca e sfida di dove si trovassero le sorgenti del grande fiume della pittura astratta, nelle cui acque doveva esserci una divinità primordiale fatta solo di segni e colori. Franco, che nascondeva nei suoi occhi il segreto del suo essere stato per sempre contagiato dal colore. Qui il perché del suo irriducibile silenzio con un bicchiere di rosso in mano, magari brindando, in silenzio, a quelli che aveva conosciuto, da vivi e da fantasmi, nei loro studi da pittori nella Casa dei Tre Oci o a Dorsoduro.

E tra i pittori addio anche ad Aldo Andreolo, uomo e artista dalla gentilezza straordinaria, che scelse di dipingere per tutta la vita la stessa donna, sempre con lo stesso cappello alla Greta Garbo e con sullo sfondo sempre quella sua Venezia. Una Venezia sigillata in tempi e stagioni soltanto sognate o immaginate o rimaste lì in un incanto adolescenziale, che forse sedusse Andreolo con le assorte eleganze dei Grand Hotel e delle spiagge fra gli anni Trenta e Quaranta. I suoi quadri potremmo chiamarli icone, essendo ripetutamente fisse in un altrove che potrebbe essere Venezia.

E molto lungo ancora sarebbe l’elenco dei volti e dei nomi diventati assenti negli ultimi mesi, giorno dopo giorno. Persone comuni, normali, che camminavano assieme noi e che nei loro diversi campi non hanno fatto mancare le loro qualità, che adesso ci mancheranno. Però, perché ha da esserci un però.

L’amico Nico Stringa, storico dell’arte e docente a Ca’ Foscari, mi ha inviato una pubblicazione, “Anthopos”, curata da Alberto Camerotto e Filippomaria Pontani, entrambi professori cafoscarini, ed è in una di quelle pagine che ho letto parole utili per un “però” di buona permanenza a Venezia o dovunque valga la pena di vivere: «Siamo entrati, allora, nella zona rossa, tutti. C’è un solo pensiero possibile, che significa il nostro bene comune... di cui parliamo spesso. La consapevolezza e la condivisione del problema, del pericolo. Saperlo guardare con occhi diversi, con occhi altri anche nei momenti della nostra quotidianità, nei gesti, nelle parole, nei comportamenti. La capacità, potremmo anche dire il dovere di andare più in là del nostro particolare. Potremmo chiamarla con la parola Aidos (...). Il significato non è facile, tra rispetto, pudore, riguardo».

Ecco perchè dovremmo volere che il vero vaccino si chiamasse Aidos, cioè rispetto, pudore, riguardo, e che fosse reso obbligatorio. —

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