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Zucchero: «La mia vita soul tra Miles Davis e Dustin Hoffman»

Emozioni e viaggi, aneddoti e incontri del più internazionale dei cantautori italiani, in partenza del tour col suo nuovo album. Come quella volta che avrebbe voluto insegnare alla grande Aretha Franklin l'accento giusto di «Vincerò» nell'aria Nessun Dorma. E lei invece...


Un dolore micidiale. Da inginocchiarsi per terra… L'anno scorso viaggiavo in auto lungo la Route 66, verso Santa Fè, con mio figlio e la mia compagna, quando all'improvviso inizio a stare male per un attacco violentissimo di appendicite. Un'infiammazione bestiale aggravata dal fatto di aver mangiato un sacchetto di semi di girasole senza aver tolto il guscio. Raggiunto il primo paesino, mi caricano in ambulanza d'urgenza e finisco in ospedale ad Amarillo, in Texas. Lì, il chirurgo e il suo staff, dopo aver visto i documenti e aver parlato con la mia compagna, capiscono al volo chi sono e con lo smartphone fanno partire come colonna sonora in sala operatoria Senza una donna. Incredibile…». Viaggiava lungo le strade americane del blues, Zucchero, che incontriamo a Milano un paio di mesi dopo l'uscita del suo ultimo album, D.O.C, a una manciata di settimane dal prossimo tour mondiale (sei mesi tra Australia, Stati Uniti ed Europa) che include 12 concerti all'Arena di Verona. Viaggiava attraverso i luoghi e le atmosfere che da sempre ispirano il suo sound, un linguaggio musicale universale che fa di lui uno degli artisti italiani più famosi nel mondo (ha venduto oltre 60 milioni di album) e gli ha consentito di intrecciare la sua arte con quella delle icone della musica contemporanea.

La prima volta che ha incontrato Eric Clapton è rimasto letteralmente in mutande…

«Ebbene sì. Ero riuscito grazie al promoter a raggiungerlo nei camerini a Firenze. Clapton, dopo avermi salutato, s'innamorò dei miei pantaloni di pelle. «I love your pants», insistette per due o tre volte. Così, come di solito faccio io, senza pensare troppo, me li tolsi e glieli consegnai. Lui, rimase a bocca aperta e disse: «No, no, grazie». E io mi rivestii...»

Non dev'essere stato semplice spiegare ad Aretha Franklin che stava sbagliando l'accento sul «Vincerò» del Nessun dorma...

«Fui istigato da Luciano Pavarotti e da uno dei responsabili dei Grammy Award. Tutto avvenne durante le prove generali a porte chiuse della sua esibizione. Aretha, volendo fare un omaggio a Luciano, aveva deciso di interpretare il Nessun dorma. Solo che, non essendo italiana, sulla parola «Vincerò» non beccava mai l'accento giusto mandando fuori tempo l'orchestra. «I'm not gonna sing like this» urlava incazzata sbattendo il microfono per terra. Il giovane direttore era nel panico, sbiancato. A quel punto, Luciano mi disse: «Vai e dille dove sbaglia». «Sei matto? Quella mi manda al diavolo», fu la mia risposta… Poi, a convincermi, ci si mise anche il funzionario dei Grammy che senza esitazioni profetizzò: «Guarda che lei è una professionista, vedrai che apprezzerà molto il tuo suggerimento». Così, poco convinto e un po' coglione, andai. «Sorry Aretha…». Si infuriò e mi disse: «Tu che cosa fai per vivere?» E io: «Il musicista». «Ecco, bene, allora tu fai il tuo lavoro che io mi occupo del mio». E continuò a sbagliare accento. Il giorno dopo, al momento della foto ufficiale per i Grammy non volle posare di fianco a me e si mise vicino a Luciano: la fine del mio sogno di duettare con Aretha...»


Robert Ascroft


Prima di diventare Zucchero, è stato pure Zuccherino...

«Così mi chiamavano i paesani di Roncocesi, in Emilia, dove sono nato. Il classico borgo con la chiesa e la cooperativa dove tutti si conoscevano. Lì hanno iniziato a chiamarmi «Zuccherino» perché ero un bambino dolce anche se un po' birichino, destinato a diventare un trascinatore, ma sempre molto sensibile e romantico. Ho capito di recente che invecchiando, le radici, anziché accorciarsi, si allungano. E quell'affresco fatto di granai, profumi di fiori e contadini mi manca molto. Oggi, come dico nel mio ultimo album, siamo, chi più chi meno, vittime del «cool». Nessuno si manifesta per quel che davvero è, c'è un'esigenza di apparire, di dare l'impressione di essere sempre il numero uno. Ecco perché ho scelto di vivere su un cucuzzolo dell'Appennino tosco-emiliano, dove se ho bisogno andare in paese ci vado con jeans e stivali. Posso dire che non era questo il mondo che sognavo da bambino. Ho vissuto un'infanzia stupenda, in una comunità dove ci si sentiva abbracciati e benvoluti».

E dove il mondo di Giovannino Guareschi prendeva forma ogni giorno…

«A casa mia le scene alla Don Camillo e Peppone non mancavano mai. I contendenti che si sfidavano quotidianamente erano mio zio Guerra, fervente marxista leninista diventato poi maoista, e il parroco, Don Tajadela. Si piazzavano su una panchina davanti al pozzo del paese e battibeccavano all'infinito, si scaldavano, alzavano la voce. Distanti ideologicamente su tutto, si volevano in realtà un gran bene. Ogni domenica lo zio Guerra mi diceva: «Vai e invitalo a pranzo da noi. Mi fa pena pensare che sia là in parrocchia da solo». Io, a differenza dello zio, non mi sono mai sentito comunista, non ho mai avuto la tessera del partito in tasca. Mia madre era cattolica e andava in chiesa, mio padre, invece, era completamente apolitico. Mi sento piuttosto anarchico, nell'accezione di Fabrizio De André, e certamente antifascista come lo erano i miei nonni. La cito testualmente: «Tra la figa e la musica scelgo la seconda perché la prima pone sempre domande, la seconda invece può dare risposte». A quest'età (dopo aver riso di gusto, ndr) scelgo la musica perché mi appaga molto di più. Sarà perché gli anni passano e gli ormoni non sono più ringalluzziti come un tempo… E poi, comunque la musica è a tutti gli effetti tensione erotica, sensualità…»

Forse non la pensava così quando a 16 anni è stato colto in flagrante da suo padre con un'avvenente fanciulla inglese...

«Bunny. L'avevo conosciuta a una festa di paese in Toscana dove suonavo con un'orchestrina. Era più grande di me, bellissima, bionda, con i capelli lunghi e gli occhialini da intellettuale. Una hippy. Una sera d'estate mi telefonò dicendomi di essere a Carrara dove in quel periodo abitava la mia famiglia. Appena arrivato alla stazione, avvertii nell'aria il suo inconfondibile profumo patchouli. La portai a cena, poi al cinema e infine a casa. Ero al settimo cielo, peccato che mio padre fosse uscito dimenticandosi le chiavi. Così, tornò indietro ed entrò dall'unica finestra aperta, quella della stanza dove eravamo io e Bunny. Non la prese bene: «Cosa state facendo? Tu vai immediatamente nel tuo letto e lei, signorina, si rivesta!».

Com'è stato sentirsi stringere la gola dalle dita di Miles Davis?

«Eravamo a New York e Miles doveva registrare la sua parte in Dune Mosse. All'inizio non ci capimmo sulla tonalità del brano. «What the fuck are you doing?» mi urlò. Era davvero spigoloso, introverso, sempre vestito di nero con gli occhiali neri. Non rideva mai... Io mi difesi dicendo che sapevo quel che facevo perché il brano l'avevo scritto io. Ci capimmo, lui si alzò, appoggiò le dita sulla mia gola e disse: «Hey, mi piace la tua voce». In un'altra occasione, a Bolzano, mi invitò a pranzo perché voleva che scrivessi dei testi su due suoi brani blues. Mi diede un nastro con le canzoni, ma fu impossibile metterci sopra delle parole perché non erano brani veri e propri, ma improvvisazioni complicatissime. Poco dopo, morì. Conservo ancora la cassetta con quei due pezzi. Ai tempi, qualcuno arrivò a ipotizzare che per convincerlo a suonare nel mio disco gli avessi regalato una Ferrari. Figuriamoci: in quel periodo non avevo nemmeno gli occhi per piangere...»

Anche gli incontri con Dustin Hoffman le hanno riservato qualche sorpresa…

«La prima volta alla festa per i vent'anni di matrimonio di Sting si inginocchiò davanti a me. Credevo mi stesse prendendo in giro, ma sua moglie mi spiegò che Dustin adorava davvero i miei dischi. Poco tempo dopo venni svegliato alle sette del mattino a Capri da un suo scherzo telefonico: «Sono Dastino. Mamma, mi scappa cacca». Capii che era lui un attimo prima di mandarlo brutalmente a quel paese. Era a Sorrento e voleva raggiungermi in studio di registrazione dove stavo incidendo Blue».

Fare le prove prima di un concerto avendo come spettatore Bruce Springsteen…

«Anche questo è successo. Lo scorso dicembre sono stato invitato al Beacon Theatre di New York per il Rainforest Fund Concert organizzato da Sting con Eurythmics, James Taylor e Bruce Springsteen. Durante il soundcheck, in attesa che venisse il suo turno, Bruce si è piazzato di fianco al palco mentre io provavo. Alla fine, nel suo classico stile da uomo di poche parole, mi ha detto: «Good stuff. You did a great job!».

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