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CONTRACTOR: QUEGLI ITALIANI NELLE ZONE DI GUERRA

Ieri militari, oggi operano per compagnie private nelle aree più pericolose del mondo. Scampati ad attentati, con le cicatrici ben evidenti, cinque veterani raccontano a Panorama le loro storie.


«Ricordo un razzo Rpg volare nella mia direzione. Rimango paralizzato fino al momento in cui ci "sfila di poppa" di pochi centimetri, come un siluro che sfiora una nave…» racconta Cristiano Meli, il veterano dei contractor italiani. Né fantasiosi Rambo, né mercenari senza scrupoli, ma professionisti della sicurezza al servizio di compagnie private in mezzo mondo, dall'Afghanistan alla Libia fino alla Nigeria. «Solo quando sento il bang del razzo che si schianta contro la parete di roccia che chiude la strada, mi risveglio e comincio ad annaffiare il nemico di traccianti» racconta il quarantacinquenne genovese a Panorama, che si è fatto le ossa in Iraq. Meli, negli anni ruggenti del dopo Saddam è finito in nove «contatti» come chiama gli scontri a fuoco con gli insorti. Il quadro è forte. «Erano tempi in cui al mattino scambiavi due chiacchiere con il collega sotto le docce comuni e prima di mezzogiorno ne stavi raccogliendo i pezzi o raschiando via il sangue dal parabrezza» spiega il contractor. Di soldati privati in Iraq dal 2004 al 2007 ne sono passati 15.000, mentre 800-900 sono caduti in imboscate o finiti spappolati dalle trappole esplosive garantendo scorte e sicurezza.

Meli, ex sottufficiale della Marina militare, poi arruolato nella Legione straniera, ha vissuto il periodo d'oro dei contractor in Iraq battezzato «il selvaggio Far West». Oggi è consulente per la sicurezza in Nigeria, ma la cicatrice sullo zigomo sinistro non gli farà mai dimenticare il sangue e la polvere di Baghdad. «Il nostro convoglio di tre veicoli viene attaccato prima da destra, poi anche dal lato sinistro» racconta. «Mentre sto rispondendo al fuoco, con la coda dell'occhio vedo un paio di ribelli con una mitragliatrice, proprio sul bordo del cavalcavia, che cominciano a vomitarci piombo addosso». Un colpo gli arriva in faccia. «La palla, che era progettata per frantumarsi all'interno della mia testa, per qualche fortunato motivo mi esplode sugli occhiali balistici».

Il piombo in mille pezzi gli apre dozzine di ferite sulle braccia. Un frammento del proiettile si conficca nello zigomo. L'uomo «spendibile», come viene chiamato freddamente in gergo chi sta sul retro dei mezzi con il portellone aperto e la mitragliatrice puntata, «è stato meno fortunato». Si chiama Fellah ed è iracheno: «Una palla passa il tettuccio e lo colpisce in testa. Quando ci siamo fermati dopo circa un chilometro, stava ancora agonizzando. Ci ha messo un po' a morire».

Un altro contractor a cadere al fianco dell'italiano è un giovane parà americano, Chris Kilpatrick, 26 anni. «Il primo proiettile lo spegne come una bambola sulla strada fra Kirkuk e Beiji» dice Meli. La descrizione è raccapricciante. «La pressione ha spinto il cervello e fa esplodere una parte del cranio come un tappo di spumante. Ho cercato di raccogliere tutto alla meglio per metterlo nel sacco nero assieme al corpo. Chris sorrideva ancora». La guerra è così.

Oggi il Far West iracheno non esiste più, ma un pugno di contractor italiani sono ancora in prima linea sul fronte della sicurezza nelle aree di crisi. Panorama li ha cercati per raccontare le loro storie. «Doc» è il nomignolo di un ex parà, che da 10 anni lavora in Iraq nelle scorte per il personale di una grande azienda petrolifera. «Green light, stiamo partendo dalla base. Cliente a bordo, in sicurezza, comunicazioni funzionanti, portiere chiuse. Confermata destinazione X». Ready to go» è la procedura ripetuta mille volte dal contractor, che viene dal Nord Italia. «In caso di imboscata il mio compito non è ingaggiare il nemico, ma fare da scudo umano al cliente salvandogli la pelle a ogni costo» afferma Doc. «Italiani validi in questo campo siamo una decina. Devi avere esperienza operativa, conoscere bene l'inglese ed essere così pazzo da mollare le forze armate per diventare un contractor» sottolinea l'italiano, che si è laureato in geopolitica.

Fino a qualche anno fa si guadagnavano anche 10-15.000 dollari al mese più le ferie nel Sud Est asiatico «per ricaricare le batterie». Adesso, invece, si arriva a malapena a 200 dollari al giorno. Il mercato è in mano a inglesi, americani, sudafricani e ai francesi nelle loro ex colonie africane. Gli italiani seri sono pochi, dice Doc: «Girano tanti cialtroni che si improvvisano contractor dopo aver smanettato con Call of duty», il famoso video gioco combat.

Andy Costa, fotografo per passione, ha avuto il suo battesimo del fuoco in Kosovo con i Lagunari. Sul tetto della casa di un'anziana serba, che i nostri soldati proteggevano dalle vendette albanesi, un proiettile gli è sibilato vicino alla testa. La divisa gli sta stretta e scopre il mondo dei contractor quando Fabrizio Quattrocchi bendato e costretto a inginocchiarsi in una buca in Iraq sfida i boia dicendo «Vi faccio vedere come muore un italiano». Un soldato privato coraggioso bollato da una parte d'Italia come mercenario, ma il presidente Carlo Azeglio Ciampi nel 2006 lo ha onorato con la Medaglia d'oro al valor civile. L'ultimo ingaggio nelle scorte in Afghanistan. il sabato sera, agli amici che gli chiedono se ha paura, Andy continua a ripetere «che ci sono più morti nei fine settimana sulle strade italiane».

Nella base inglese a Bassora, in Iraq, non mancavano i colpi di mortaio. «Suona la sirena e una voce metallica ripete per tre volte dagli altoparlanti: "incoming" (sta arrivando)» ricorda il contractor veneto. «Così corriamo tutti nei rifugi, ma spesso i tiri sono imprecisi e una volta la granata è piombata sulla mensa. Rammento il boato dell'esplosione e la terra che tremava sotto i piedi. Due soldati americani sono stati uccisi».

Costa ha lavorato in una dozzina di postacci a rischio ingaggiato anche da un'azienda italiana a Dacca, in Bangladesh, dopo che nove connazionali sono stati sgozzati da una cellula jihadista nel 2016. «Si valuta il rischio osservando dove si trovano gli uffici, le abitazioni e quali sono i tragitti dei dipendenti» spiega. «Poi fornisco consigli e procedure di sicurezza per evitare attacchi terroristici, sequestri o semplici rapine».

In Pakistan ha scortato il personale di una grande fondazione filantropica americana. «A Karachi adottavo il basso profilo. Al posto dei fuoristrada blindati, utilitarie locali. E per mimetizzarsi chiedevo ai clienti di indossare la tunica e i pantaloni a sbuffo dei pachistani. Il rischio costante erano i rapimenti» racconta l'esperto di sicurezza.

Sul fronte di guerra ucraina del Donbass, Costa è stato un osservatore dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Ocse) per monitorare il rispetto del cessate il fuoco, che spesso esiste solo sulla carta. «Fuoristrada bianchi con la bandiera dell'Ocse, elmetto, giubbotto antiproiettile e rigorosamente disarmati riportavamo i tiri di artiglieria, mortai e carri armati lungo la linea del fronte» racconta Andy. Non solo dai punti di osservazione, ma anche grazie ai droni pilotati a distanza da specialisti americani. «Il mio compito era individuare dall'alto le armi pesanti o truppe in movimento. Il drone fotografava le vampate bianche delle cannonate oppure le esplosioni dei tiri di artiglieria in arrivo. Sembrava una specie di Risiko. Ma vero».

Il business della sicurezza privata nelle zone a rischio del mondo è di 250 miliardi di dollari e sul mercato si stanno affacciando con spregiudicatezza anche società russe e cinesi. In Italia ci sarebbe bisogno di una legislazione adeguata e di un radicale cambiamento culturale per avviare un settore che possa competere con gli anglosassoni nella protezione delle nostre aziende e degli interessi nazionali in zone instabili.

Alcune società italiane di vigilanza si limitano a fornire personale di protezione sulle navi mercantili contro gli attacchi dei pirati. Emmanuele Caglioni, milanese classe 1981, ha avuto il suo battesimo del fuoco in Afghanistan come parà del 185° Reggimento acquisizione obiettivi. Una volta congedato ha aperto una ditta di traslochi, ma non faceva per lui. «Così mi sono ritrovato a bordo dei mercantili italiani al largo della Somalia in servizio anti-pirateria» racconta Caglioni. Il caposquadra guadagna 150 euro al giorno, ma solo nei tratti di mare pericolosi. Per respingere gli attacchi ci sono precise regola d'ingaggio: «Quando avvisti i barchini con il binocolo o sul radar prima lanci un fumogeno, poi attivi le sirene e il timoniere comincia ad andare a zig zag. Alla fine spari con i fucili mitragliatori in dotazione».

Caglioni ha respinto tre attacchi con uno sciame di cinque o sei barchini al largo della Somalia zeppi di pirati. «Erano armati di lanciarazzi Rpg e hanno pure provato a sparare qualche colpo di kalashnikov» prosegue l'ex parà. «Tiri ben piazzati davanti ai barchini hanno sempre convinto i pirati a invertire la rotta».

M. P. - preferisce che si usino solo le iniziali - fin da giovane voleva fare il soldato e girare il mondo. Ecco che a 18 anni si arruola nella Folgore per poi transitare nella Legione straniera. Da contractor passa tre anni in Nigeria come responsabile della sicurezza di una cittadella della Chevron dove vivevano duemila espatriati, compresi centinaia di italiani. La zona pullula di ribelli del Movimento per l'emancipazione del delta del Niger. «Dentro il campo scoppiavano rivolte e fuori sabotavano gli oleodotti oppure rapivano gli stranieri, ma per fortuna non erano tagliagole jihadisti, ma guerriglieri cristiani che puntavano al riscatto» racconta il mastino della sicurezza.

Dopo l'avventura africana il contratto d'oro, da 9.000 dollari al mese con ferie pagate la metà, arriva da un miliardario indiano, che ingaggia 20 stranieri - soprattutto sudafricani - e 50 guardie armate locali. «Comandavo gli indiani e mi occupavo di executive protection per J, la lettera in codice che usavamo per la moglie del miliardario» dice il contractor. M. P. lavora sodo, ma in una specie di bolla «da mille una notte».

Il miliardario ha uno yacht a Majorca, un jet privato per gli spostamenti e residenze da sogno in giro per il mondo. «Girava con macchine da super lusso come Rolls-Royce o Bentley. Da Dubai agli Stati Uniti fino a Singapore era una vita di viaggi e feste» ricorda l'italiano. «Per non parlare delle amiche della signora, le bellissime attrici di Bollywood. Di notte folleggiavano e di giorno andavano a fare shopping».

Dopo tre anni, il richiamo della foresta lo riporta in zona di guerra. In Libia, assieme con Andy, protegge gli osservatori dell'Unione europea per le elezioni. «Un giorno all'aeroporto di Tripoli sembrava una giornata tranquilla» ricorda M. P. «A un certo punto sono spariti tutti ed è scoppiata una battaglia fra milizie. Un razzo Rpg è esploso sopra le nostre teste». Il mestiere delle armi è questo.

I mastini della sicurezza


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