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LA BLOCKCHAIN SALVERÀ IL MADE IN ITALY?

  • Per fare chiarezza sulla piattaforma tecnologica più vagheggiata del momento, Panorama.it lancia il suo approfondimento. Corredata da video realizzati in collaborazione con Sda Bocconi School of Management, l'inchiesta è pubblicata in cinque puntate a partire dal 3 marzo 2020.
  • Quarta puntata: Dai pomodori di Pachino al tessile, la tutela dei prodotti italiani attraverso il registro digitale del futuro sta creando tante aspettative. Anche perché dovrebbe garantire la trasparenza tanto auspicata dai consumatori. Ma, al di là delle pressioni dei provider tecnologici, alcuni osservatori esprimono perplessità.

Il progetto più recente è la piattaforma digitale «Rialzati Italia», lanciata il 27 marzo per garantire, la tracciabilità dei prodotti agro-alimentari italiani destinati all'export. Il più istituzionale è quello lanciato dal Ministero dello Sviluppo economico (Mise) in collaborazione con Ibm, che si propone di tutelare i prodotti tessili italiani. Il più concreto è quello del Consorzio di tutela del Pomodoro di Pachino IGP, che ha deciso di combattere le contraffazioni utilizzando la piattaforma AgriOpenData, che permetterà ai coltivatori di tracciare i loro prodotti dai campi al supermercato.


L'applicazione della blockchain, il registro digitale del futuro, alla tutela del made in Italy sta conoscendo un vero boom. Già un anno e mezzo fa, il 23 novembre 2018 l'allora ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio aveva annunciato: «La useremo nel made in Italy per combattere la contraffazione, nel campo alimentare ad esempio». Sulla carta, un'opportunità straordinaria. «L'idea alla base del progetto è che la tecnologia a registri distribuiti possa giocare un ruolo chiave per migliorare la trasparenza nell'offerta ai consumatori di produzioni italiane» si legge nel documento di sintesi del progetto pilota sul tessile lanciato nel febbraio 2019 dal Mise.

I risultati della sperimentazione, realizzata con aziende del settore tessile, hanno entusiasmato l'amministratore delegato di Ibm Italia. «L'apertura alla competizione dei mercati globali pone il brand Made in Italy nella condizione di dover assicurare la massima trasparenza e tracciabilità» ha dichiarato Enrico Cereda il 14 novembre scorso, alla presentazione ufficiale nel Salone degli arazzi del Mise. «L'uso della blockchain è l'innovazione che può consentire alle nostre imprese di garantire i propri prodotti, differenziandoli in termini di qualità e sostenibilità. Questo permetterà ai consumatori di scegliere con la massima consapevolezza, garantendo alle aziende un ritorno importante in termini di fiducia».

A dar retta all'Ibm, la blockchain è dunque una tecnologia destinata a salvare il made in Italy. Ma non tutti condividono l'euforia del manager. Sul progetto del ministero sono piovute alcune critiche. Il divulgatore digitale Marco Cavicchioli, fondatore del sito ilBitcoin.news, ha commentato: «Nel caso specifico del progetto del Mise ad esempio il registro distribuito utilizzato manca di una caratteristica fondamentale per essere definito "blockchain" in senso stretto: la decentralizzazione. Ovvero è gestito da Ibm in modo non aperto, e non pubblico, pertanto non può essere definito come decentralizzato». Su Twitter gli ha fatto eco Stefano Zanero, professore del Politecnico di Milano ed esperto di cyber-security: «La blockchain per il made in Italy. Che in realtà non è una blockchain, non è aperta, e non è distribuita ma è centralizzata (lo dicono loro stessi!!!)».

Per capire se la blockchain può effettivamente aiutare un settore delicato come quello del made in Italy, Panorama ha chiesto aiuto alle due università italiane che più stanno studiando la tecnologia a registri distribuiti: la Bocconi e il Politecnico di Milano. Partiamo dalle critiche piovute addosso al progetto del Mise. È vero che la piattaforma prevista dall'iniziativa del Mise non è decentralizzato? In effetti, avendo deciso di collaborare con Ibm, il ministero ha fatto una scelta di campo: la blockchain chiusa. Il progetto-pilota sul tessile si basa su Hyperledger Fabric, la blockchain di Ibm che oggettivamente è una piattaforma permissioned, cioè basata su un sistema chiuso.


La blockchain in Italia.


Come Panorama ha spiegato in un precedente articolo di questa serie, il registro digitale del futuro si basa su due tipi di piattaforme: il sistema aperto e il sistema chiuso. «Le cosiddette piattaforme permissionless, cioè quelle aperte, non hanno bisogno di chiedere permessi a nessuno» spiega Valeria Portale, direttrice dell'Osservatorio Blockchain del Politecnico di Milano. «Chiunque può entrarvi: non c'è qualcuno che decide se può accedere o se invece deve stare fuori». Nelle piattaforme permissioned, cioè chiuse, c'è invece qualcuno che decide chi può entrare: possono essere aziende singole, consorzi di aziende, istituzioni... Tranchant il giudizio di Leonardo Maria De Rossi, docente della Sda Bocconi: «Le piattaforme private hanno il nome blockchain ma sono ben poco blockchain: diciamo che sono delle inspired-blockchain. Con queste reti chiuse viene totalmente meno il senso della blockchain: hanno caratteristiche tecniche simili, ma dal punto di vista puramente pragmatico sono del tutto diverse. Nemmeno paragonabili alle caratteristiche delle piattaforme aperte». Più cauto il giudizio del docente sull'utilizzo di una blockchain chiusa da parte del Mise. Visto che il progetto ha comportato un investimento di risorse pubbliche, non sarebbe stato meglio pensare a una blockchain aperta? «Noi qui siamo nell'ambito delle scienze sociali, per cui siamo nel mondo del "dipende"» risponde. « Non è detto che non serva mai un sistema chiuso, come non è detto che serva sempre un sistema aperto. Bisogna fare analisi specifiche».

Un altro punto-chiave è la certificazione. Occorre mettere subito in chiaro che la blockchain non può certificare l'entità di un prodotto e tanto meno il luogo in cui tale prodotto è stato effettivamente realizzato. La nuova tecnologia si limita a certificare una transazione. Ciò detto, la blockchain può essere utile a certificare i passaggi dei prodotti italiani portati all'estero. Spiega Valeria Portale: «Se pensiamo ai prodotti che l'Italia distribuisce nel resto del mondo, la blockchain potrebbe essere uno strumento che tenga traccia di dove siano effettivamente finiti, attraverso le varie transazioni. Questo non certifica che non possano esserci in giro fake, ma può servire a dimostrare i passaggi compiuti dai prodotti autentici prima di arrivare nel punto vendita finale».

Facciamo l'esempio di una borsa di Prada. «Ipotizziamo che Prada abbia mandato in Svezia solo 10 unità di un certo modello, che le abbia certificate sulla blockchain, associando a ognuna un token, cioè l'asset digitale che la identifica e che ne dà il diritto di possesso (chi ha la borsa deve avere anche il token: se si ha la borsa senza token, c'è qualcosa che non va). Se Prada ha immesso sul mercato svedese solo 10 token e a un certo punto scopre che in realtà ci sono 50 borse di quel modello, probabilmente le 40 borse eccedenti sono false».

Già, perché spesso i produttori perdono il controllo della filiera allungata. E qui entra in gioco la blockchain. «Con questa tecnologia, Prada può verificare tutti i passaggi delle varie vendite. Ma non è solo Prada a poterlo fare» spiega la professoressa del Politecnico. «Tutti gli attori della filiera possano verificare che effettivamente qualcuno ha comprato da Prada di tot unità, che le ha nel proprio portafoglio e che se le vende a loro non può venderle ad altri. Questo indubbiamente offre una garanzia in più».

Ma, visto che non lo fa la blockchain, chi certifica all'origine che la borsa in questione è stata in effetti prodotta da Prada? «La certificazione continua a essere fatta dagli attori di sempre, quelli che rilasciano il marchio o il bollino. Nel mondo dell'agroalimentare, per esempio, è fondamentale il ruolo dei consorzi» puntualizza Portale. «Idem nel mondo del lusso: è il Prada di turno a immettere sul mercato la borsa, a certificarla associandole un token e a farla viaggiare sul mercato insieme al token digitale». E le associa anche un tag, vero? «Esatto. Sulla borsa, per essere certi che nessuno possa sostituirla, di solito viene messa un'antenna Rfid».

In termini pratici, dunque, la blockchain appare utile soprattutto al cliente finale. «I vantaggi sono molteplici. Sicuramente il consumatore ha la garanzia che il prodotto acquistato è quello che dice di essere. Le aziende dal canto loro, si tutelano contro la falsificazione. E in più sono garantiti tutti gli attori intermedi, come i grossisti e i rivenditori».


La blockchain nel mondo


Con la blockchain, la trasparenza regna sovrana. Ma tanta trasparenza, e qui apriamo un tasto dolente, non rischia paradossalmente di creare problemi a quel made in Italy che spesso è tale solo in parte? Sappiamo che, per esempio nel mondo della moda, tanti prodotti apparentemente fatti in Italia in realtà di italiano hanno ben poco. Prendiamo le scarpe: anche se sono prodotte all'estero, basta che all'arrivo in Italia venga applicata la suola e ottengono il marchio made in Italy. Usando la blockchain, insomma, non si rischia di portare alla luce tanti aspetti opachi della produzione nostrana? «Esatto: la tecnologia permette di essere molto trasparenti, fin troppo trasparenti, sia con il consumatore sia con tutti gli interlocutori della filiera» ammette Portale con un sorriso. «E certo non è detto che in tutte le filiere la massima trasparenza possa essere un elemento positivo. Per il consumatore, invece, la massima trasparenza diventa un elemento differenziale importantissimo».

Ma avete già riscontrato un po' di riluttanza da parte di qualche azienda? «Siamo ancora all'inizio» risponde la professoressa del Politecnico. «Stiamo però vedendo da un lato un forte interesse, dall'altro una presa di coscienza che tanta trasparenza può ridurre quell'asimmetria informativa che molto spesso il mercato usa anche come leva competitiva. Quindi è vero che alcune aziende, se da un lato ne vedono i punti di forza, dall'altro potrebbero esserne spaventate. E qua potrebbe entrare in gioco lo Stato, che potrebbe spingere per indurre il made in Italy pulito ad andare verso questi sistemi, sia nella filiera a monte sia in quella a valle. Cioè sia in quella che porta il prodotto finito al consumatore sia in quella che permette di capire come è stato effettivamente realizzato in tutte le sue componentistiche».

Di tutt'altro avviso il professor De Rossi della Bocconi: «È molto improbabile, conoscendone le caratteristiche tecniche, che il made in Italy verrà salvato dalla blockchain. Perché questa tecnologia è di per sé un pessimo database: è inefficiente e ridondante per definizione. E quindi non è adatta a salvare una grande mole di dati. L'idea di creare un servizio che vada a tracciare il made in Italy con la blockchain di per sé è alquanto improbabile». Ma se non verrà salvato, il made in Italy potrebbe almeno essere aiutato dalla blockchain? Per esempio sul tema della contraffazione? De Rossi scuote la testa: «Bisogna stare molto attenti a tutti i contesti applicativi che prevedono la traduzione di un asset fisico, come una borsa, in un asset digitale. Questo passaggio, che si chiama "creazione di un digital twin", è molto difficile da realizzare senza un terzo, che può essere una macchina o una persona, che certifichi questo passaggio».

Il problema è che, in questo passaggio, c'è un punto in cui è facile fallire. De Rossi lo spiega così: «La blockchain non garantisce che il dato salvato all'interno della stessa sia corretto. Al massimo attesta che il dato non sia stato modificato nel tempo, ma non ne garantisce la qualità. Con la blockchain si può creare una sorta di database in cui tracciare la filiera produttiva, ma nulla e nessuno può garantire che i dati salvati all'interno siano corretti e che si rispecchiano nel mondo fisico. In tutti i settori, dall'agroalimentare al tessile, tracciare con la blockchain è difficile e probabilmente non è nemmeno economicamente e tecnicamente conveniente. Faccio molta molta fatica a pensare a qualunque tipo di applicazione rivolta alla tracciabilità con la blockchain. Perché non è solo questione di che cosa si traccia, ma anche di come si traccia». È dunque lo strumento che non la convince? «Sì. La blockchain non è stata pensata per quello scopo e fa molta fatica a fare quel mestiere meglio di altre tecnologie».


Le migliori soluzioni tecnologiche ai problemi del made in Italy


Ma ci sono strumenti migliori per tracciare il made in Italy? «In realtà già tutta la nostra filiera è abbastanza tracciata. Facciamo un esempio concreto: quando noi ordiniamo un pacco su Amazon noi sappiamo esattamente dov'è il nostro pacco perché Amazon e il corriere di turno ci dà tutti i sottopassaggi. Il giorno X è nel posto Y, il giorno X+1 è nel posto Z e via dicendo. Questo si fa già da anni» spiega il professore della Bocconi. «La mia domanda è: perché adesso dobbiamo farlo con la blockchain?». Ma allora perché si parla così tanto di blockchain? Solo perché è di moda? «Di sicuro l'intero mercato, domanda e offerta, subisce l'effetto moda. Ciò che poi si cerca di fare è applicare una tecnologia che apparentemente risolve tutti i mali a un contesto, il made in Italy, che effettivamente ha dei problemi. Il punto è il processo con cui viene scelta la blockchain come soluzione. Molto raramente viene adottato un metodo strutturato in cui si valutano diversi tipi di tecnologie e poi eventualmente si seleziona la blockchain. No, a priori si sceglie la blockchain».

    Ma cosa c'è dietro quest'alzata di scudi? Consulenti aziendali che fanno pressioni per vendere proprio questo tipo di servizio? «Certo ci sono vari provider tecnologici che hanno nella propria offerta la blockchain». Ma perché propongono questa tecnologia e non un'altra? «Sicuramente perché è più facile vendere qualcosa che va di moda. Ora, mettiamo in chiaro: non è che la blockchain sia una truffa, ma semplicemente è molto più limitata di quanto si creda». Ma, allora, in che contesto funziona veramente questa nuova tecnologia digitale? «Il contesto in cui ha più senso rimane Bitcoin» è la lapidaria risposta di De Rossi. Il messaggio, insomma, è sempre lo stesso. Anche per il made in Italy, attenzione a non cadere preda delle mode. E di chi sulle mode ci marcia.

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