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Il carcere per i giornalisti? Ecco a chi non piace



La Corte costituzionale doveva discutere sulla diffamazione a mezzo stampa, ma tutto è stata rinviato. È una questione di democrazia che aspetta nuove norme da 20 anni. Che però l'Avvocatura dello Stato - cioè il governo - ritiene infondata.

È la maledizione del rinvio. Potrebbe essere però anche il rinvio (continuo) di una maledizione. Da oltre 20 anni, quando in Italia una qualsiasi istituzione cerca di risolvere questo problema, spunta un ostacolo e tutto si blocca. Il 21 aprile sarebbe toccato alla Corte costituzionale affrontare il nodo della diffamazione a mezzo stampa, ma la discussione è stata rinviata a data da destinarsi. In passato ci avevano provato partiti e parlamenti. Nulla da fare: le norme che dispongono il carcere per i giornalisti sono intoccabili. Eppure il problema non è da poco. Per la diffamazione, il Codice penale del 1930 (non per nulla l'anno VIII dell'era del fascismo) prevede fino a tre anni di reclusione, e la Legge sulla stampa del 1948 arriva a sei. Le due norme consentono risarcimenti teoricamente illimitati e non puniscono le querele intimidatorie. L'Italia è il solo Paese europeo dove tutto questo sia possibile. Non sono molti, per fortuna, i giornalisti che davvero finiscono in galera, ma le due leggi di fatto limitano la libertà di critica e di espressione. Una volta ogni quattro anni, a Ginevra, la Commissione diritti umani delle Nazioni unite si riunisce e ogni volta critica l'Italia per le sue leggi illiberali sulla diffamazione. A partire dal 2003, in pratica, non c'è stato anno in cui la Corte europea dei diritti dell'uomo non abbia condannato il governo di Roma a risarcire giornalisti condannati a pene detentive, stabilendo fosse stato violato il loro diritto fondamentale.

Un caso pilota, nel 2013, ha riguardato Maurizio Belpietro, oggi direttore di Panorama e della Verità, all'epoca direttore di Libero: quattro mesi di carcere per omesso controllo su un articolo, ma la Cedu aveva condannato il governo italiano a risarcirlo con 10 mila euro, censurando «l'effetto dissuasivo che il timore del carcere ha sull'esercizio della libertà d'espressione dei giornalisti». E nel 2012 Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, fu condannato a 14 mesi e graziato in extremis dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dopo sette anni, nel 2019, la Corte di Strasburgo ha condannato il governo italiano: il giornalista non avrebbe mai dovuto subire «una pena da scontare in carcere». Anche le principali organizzazioni internazionali dei diritti civili, da Amnesty international, deplorano le leggi italiane. L'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa le contesta almeno dal 2004. Nel 2013, quando l'allora direttore di Panorama Giorgio Mulé fu condannato a otto mesi senza la sospensione condizionale della pena per omesso controllo su un articolo ritenuto diffamatorio, entrambe chiesero con forza che il Parlamento intervenisse urgentemente. L'Ocse non ha più mollato la presa: «Le disposizioni penali italiane in materia di diffamazione dovrebbero essere abrogate a favore di azioni civili, volte a riabilitare la reputazione danneggiata» hanno scritto i suoi ispettori nel 2019, aggiungendo che «le sanzioni dovrebbero essere proporzionate al danno effettivamente arrecato». Risultati? Nessuno. E ogni volta la maledizione del rinvio ferma tutto. L'ultimo rimando, quello appena deciso dalla Corte costituzionale, è stato probabilmente il più grave degli ultimi vent'anni. Non per il rinvio in sé, quanto per quel che l'ha preceduto. La questione del carcere per i giornalisti è sul tavolo della Consulta da 15 mesi, cioè da quando due giudici di Salerno e a Bari, impegnati a decidere su presunte diffamazioni a mezzo stampa, hanno sollevato una questione di legittimità costituzionale sul carcere per i giornalisti, previsto dall'articolo 595 del Codice penale e dall'articolo 13 della Legge sulla stampa. Il problema è che l'avvocatura dello Stato, che rappresenta la presidenza del Consiglio e il ministero della Giustizia, cioè Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede, ha depositato una memoria in cui ritiene la questione «inammissibile e infondata». Un fatto sconcertante, perché fa pensare che l'esecutivo sia favorevole alle norme illiberali che governano la libertà di stampa. Eppure sui giornali quasi nessuno s n'è accorto, e né Palazzo Chigi né il ministero della Giustizia hanno smentito. Quando la Corte costituzionale si riunirà, si vedrà se cambieranno posizione.
Intanto la diffamazione non cambia. Anche all'inizio di questa legislatura sono state depositate proposte di legge. Ripartono dal tentativo fatto nella scorsa legislatura da Enrico Costa, avvocato e deputato di Forza Italia. Da penalista, Costa aveva proposto una riforma che eliminava il carcere per i giornalisti e modulava meglio tutte le sanzioni, punendo anche chi presenti una «querela temeraria» contro un cronista al solo scopo di intimidirlo con la minaccia di un processo. Approvato dalla Camera nel 2013, modificato dal Senato nel 2014, un anno dopo il progetto Costa era stato modificato nuovamente dalla Camera e a quel punto era finito su un binario morto. È stato il tentativo più avanzato nella storia. Ma il muro di gomma su cui s'è schiantato ha confermato il sospetto che questo lasciar partire tentativi di riforma, per poi bloccarli, sia l'escamotage che serve a prendere tempo per non cambiare le cose. Da decenni le cose vanno avanti così e il gioco ormai è scoperto, eppure non si riesce a interromperlo.Intanto, però, il problema resta irrisolto. E cresce. Nell'ottobre 2016 l'associazione Ossigeno per l'informazione aveva elaborato un dossier da cui risultava che nel 2015 155 giornalisti italiani fossero stati condannati a un totale di 103 anni di reclusione. Su 5.904 querele, in primo grado 5.125 erano risultate infondate, quasi nove su dieci: questo però era accaduto alla fine di processi costosi e lunghi fino a quattro anni, le cui spese spesso erano andate a carico degli accusati. «Ma il numero dei processi aumenta ogni anno dell'8 per cento» concludeva il dossier. E la maledizione del rinvio continua.

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