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Come diventammo una repubblica



Tra le macerie del conflitto e la voglia di rinascere, l'Italia ebbe il suo governo primo post bellico e indisse il suo fondativo (e discusso) referendum. Il Paese scelse e archiviò la monarchia. Un nuovo Stato che però partiva già in salita...


Furono, quelli, due anni cruciali per il destino dell'Italia: a cavallo tra la fine della guerra e i primi scampoli di pace, e l'anno dopo, nel 1946, la scelta fra tenersi il re o virare sulla repubblica, e a chi affidare il governo di un Paese a brandelli. La sera, nei cortili, si ballava il boogie-woogie sul ritmo importato direttamente dagli Stati Uniti. I giovani fumavano le sigarette Lucky strike. Si mangiava la carne in scatola e il latte condensato degli americani. Un pranzo al ristorante costava dalle 35 alle 55 lire. Cresceva - forte - la voglia di normalità, ma era tutto provvisorio.

Il governo, il 21 giugno 1945, venne affidato a Ferruccio Parri che veniva dalla resistenza. In clandestinità lo chiamavano «Maurizio» e, dopo la liberazione, sfilò per le strade di Milano con Raffaele Cadorna, Luigi Longo, Sandro Pertini ed Enrico Mattei. Aveva 55 anni, faccia seria e capelli bianchi. Il suo coraggio non fu mai in discussione e nemmeno l'onestà.
Modesto, colto, infaticabile, rappresentò un partito brillante - quello d'Azione - animato da geniali e irragionevoli e, perciò, destinato a sfasciarsi in breve tempo. I problemi da affrontare non furono nemmeno dei più semplici: il dramma della carestia, i disoccupati a decine di migliaia, la povertà diffusa.

Lo Stato, rimesso in piedi alla meno peggio, si fece immediatamente sentire riproponendo e rincarando l'imposta di famiglia che fu retrodatata all'inizio dell'anno. Al Centro-Nord furono costretti a corrispondere una tassa che, almeno per i primi quattro mesi, avevano già pagato ai fascisti. Le amministrazioni che, anche più recentemente, con ingorda rapacità, hanno messo le mani nelle tasche dei cittadini possono vantare precedenti illustri. Ma, allora, la questione principale riguardò il carattere istituzionale da attribuire al Paese. Monarchia o repubblica?

Vittorio Emanuele III, rendendosi conto di quanto fosse diventato impopolare, abdicò (9 maggio 1946), si rifugiò in Egitto e lasciò il trono al figlio che assunse il numero dinastico di II. Palmiro Togliatti, nei commenti, si mostrò intransigente. «L'ultima fellonia di una casa regnante di fedifraghi...» li fulminò. «A ogni passo, dimostra di mancare della fede costituzionale». I documenti ufficiali portarono l'intestazione: «In nome del re d'Italia» senza la formula tradizionale «per grazia di Dio e volontà della nazione». La politica aveva già pronunciato il De profundis per casa Savoia. Dopo 80 anni di regno. Nemmeno molti.

Prima dell'8 settembre, ultima data di un Paese ancora unito, almeno geograficamente, Umberto passava per bel giovane, anche se inseguito dalla nomea di avere inclinazioni omosessuali che, in tempi di esplicito machismo, assumeva il sapore dell'accusa. Indossava la divisa da generale che era un incanto, passava in rassegna le truppe con garbata signorilità, non abusava in frivolezze e, nel corso dei galà, danzava il valzer con un portamento - non a caso - principesco. «Re di maggio» perché, nominato all'inizio del mese, venne tolto di mezzo il 2 del mese successivo, quando le urne decretarono la fine del suo regno.

Umberto II partecipò alla campagna elettorale con toni nobili e pacati. Promise che avrebbe rispettato «le libere determinazioni dell'imminente suffragio» ma sostenne le ragioni di una «nuova monarchia costituzionale» formulando l'auspicio che «tutti si stringessero intorno alla bandiera sotto la quale si è unificata la patria e quattro generazioni di italiani hanno potuto laboriosamente vivere ed eroicamente morire».

Gli entusiasmi monarchici non mancarono al Sud e persino Roma ebbe un rigurgito di interesse per la corona. Assolutamente ostile il Nord, piagato dai rigurgiti della guerra civile. I fascisti non c'erano più. Dunque, le responsabilità poterono essere attribuite solo a casa Savoia. Alla vigilia del 2 giugno, corsero voci di complotti sabaudi e di mene repubblicane. Ancora adesso, la pubblicistica monarchica seguita ad alimentare dubbi sulla correttezza dello scrutinio e del conteggio dei voti.

Gli stessi che sostengono la legittimità dei plebisciti risorgimentali (Napoli, Nizza, Savoia, Firenze, Venezia, Roma) che portarono tre quarti d'Italia ai Savoia, si lamentano per quello che li ha defenestrati dal Paese. Di questa teoria dell'intrigo, il solo fatto accertato è che, nella notte fra il 3 e il 4 giugno, a urne chiuse, con i risultati che andavano accumulandosi negli uffici del Viminale, il ministro degli Interni, Giuseppe Romita, temette che la repubblica fosse stata sconfitta.

«Intorno alle ventiquattro, sembrava che ogni speranza fosse perduta. Mi chiusi nello studio per scorrere e riscorrere quei dati. No, non era possibile! Tornai a leggerli, prendendo appunti e facendo calcoli. Non era possibile! Eppure, le cifre erano lì, con il loro linguaggio inequivocabile!» Probabilmente Romita, con i punti esclamativi, esagerò. Riteneva di rendere la concitazione drammatica del momento. Era un ingegnere, non un uomo di penna. Sulla fluidità delle frasi scritte poteva incepparsi, ma con i numeri aveva dimestichezza.

«Il guaio fu che i primi dati arrivarono dal Sud». Ancora parola di Romita: «Una vera beffa della sorte. A conoscenza di quanto accadeva, in quelle ore, fummo soltanto io, De Gasperi e Nenni». Difficile, in Italia, conservare i segreti. L'entourage di casa Savoia si scambiò messaggi ottimistici e lo stesso Umberto II, conversando con il suo braccio destro, Falcone Lucifero, manifestò l'impressione «che si stia attuando l'ipotesi prevista con il messaggio agli italiani».

Nei loro resoconti, i giornalisti, cedendo alla dietrologia nazionale, rifiutarono la spiegazione più semplice e ne elaborarono una sofisticata. Cioè che Romita, di proposito, lasciò filtrare notizie favorevoli alla monarchia per tirare poi fuori dal cassetto un milione di voti repubblicani che aveva accantonato e godersi il colpo di scena. In realtà, l'altalena dei risultati dipese unicamente dal modo in cui i dati arrivarono al Viminale.

Quando, massicciamente, affluirono le preferenze delle regioni settentrionali, la repubblica passò in vantaggio tanto che il computo finale le attribuì 12 milioni (e 182 mila) voti contro 10 milioni (e 362 mila). Le schede bianche o nulle superarono il milione e mezzo. E, per dare fiato a coloro che contestarono il responso, mancarono dal computo i prigionieri di guerra che - a decine di migliaia - non erano stati ancora rimpatriati. E non votarono gli italiani della Venezia Giulia, dell'Alto Adige e della Dalmazia, sottoposti ad amministrazione americana.

Il referendum, semmai ce ne fosse stato bisogno, dimostrò che esistevano due Italie di cui il periodo, dopo l'otto settembre, aveva accentuato le diversità. In tutte le province a Nord di Roma (tranne due) prevalse la repubblica in tutto quelle a Sud (tranne due) vinse la monarchia. Le eccezioni furono Cuneo e Padova al Nord; Latina e Trapani al Sud.

Speranze deluse anche in casa Savoia. Si incontrarono Falcone Lucifero e Umberto II. «Eravamo entrambi commossi per quanto non volessimo darlo a vedere. Le sconfitte rivelano gli animi meglio delle vittorie». Solo il 10 giugno la Corte costituzionale fu in grado di comunicare i risultati. Il presidente Giuseppe Pagano si limitò a leggere le cifre, fra l'altro sbagliandole e correggendosi.

Il re tergiversò ancora qualche giorno prima di prendere atto della sconfitta. Il 13 giugno uscì dal Quirinale dove un drappello di granatieri, comandati dal duca Giovanni Riario Sforza, gli resero omaggio. Il re vestiva un abito di lana grigia a un petto e teneva in testa un cappello a coppoletta piatta. Lo accompagnarono all'aeroporto di Ciampino dove salutò tutti i presenti. Però, rifiutò di stringere la mano ai ministri Mario Cervellotto e Raffaele De Courten, entrambi militari, accorsi frettolosamente, non si comprese mai se a titolo personale o a nome del governo.

Sulla pista un vecchio aereo «Savoia Marchetti S95». Il re salì a bordo, inerpicandosi per la scaletta, si voltò per accennare un saluto con la mano aperta. Alle 16.07 il decollo del volo che lo accompagnò in Portogallo. Le cronache riferirono che il pilota si chiamava Manlio Lizzani ed era il fratello del regista Carlo. La regina, con i figli, lasciò l'Italia a bordo dell'incrociatore Duca degli Abruzzi.

Fine di un'epoca. Anche se quella che stava per iniziare aveva bisogno di un periodo di rodaggio. Occorreva nominare un capo dello Stato «provvisorio». La scelta cadde su Enrico De Nicola, avvocato penalista di Napoli, di sentimenti abbastanza filo-monarchici da rendere meno traumatico il cambio di formula istituzionale.

Ottenne 394 voti sui 504 dell'intera Assemblea costituente. Uomo sobrio, riservato, elegante che mandava a comprare le camicie a Londra, attento alla prassi democratica, suscettibile e ombroso, pronto a dimettersi al primo segno di insoddisfazione nei suoi confronti. I giudizi che lo riguardarono non furono sempre ispirati alla benevolenza. I critici rilevarono che la sua candidatura nacque dall'impossibilità di trovare un capo dello Stato gradito ai partiti di massa.

Ma poiché qualcuno bisognava pur eleggere, si accordarono per un personaggio abbastanza insignificante ma «decorativo». Insomma: un personaggio minore ma scaltro. Quando gli portarono da firmare il documento per la pace, rendendosi conto di quanto sarebbe stato impopolare, trovò una quantità di giustificazioni per evitare di prendersi qualche responsabilità. Alla fine, individuò una soluzione da leguleio. Non firmò come capo dello Stato ma come il garante che autenticò un articolato già approvato dal governo. Insomma: un supernotaio.

La presidenza del Consiglio, sgonfiato il partito d'Azione, toccò ad Alcide De Gasperi che diede vita a un esecutivo con democristiani, comunisti, socialisti, repubblicani e liberali. Convivenza tortuosa, come si trattasse della coniugazione di un ossimoro. Ma, per come era messa l'Italia allora, poteva bastare.

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