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25 luglio 1943: la sera in cui cascò Mussolini

Quasi ottant'anni fa si consumava la destituzione del duce per mano del Gran Consiglio. Ecco la ricostruzione di quella concitata riunione che sprofondò il Paese nel caos.

L'incalzare della guerra (con gli americani in Sicilia e le bombe sganciate sul quartiere San Lorenzo di Roma) obbligarono Benito Mussolini a convocare il Gran Consiglio. Appuntamento a Palazzo Venezia per le 17 del 24 luglio 1943. Il 25 luglio - destinato a traslocare direttamente nella grande storia - era cominciato 24 ore prima. Nell'imminenza della riunione, Dino Grandi, uno dei capataz in camicia nera, recuperò un documento che - disse lui - aveva preparato nelle trincee dell'Epiro, nell'inverno 1940-1941. Quegli appunti diventarono il famoso «ordine del giorno» che tramortì il fascismo e lo portò alla dissoluzione.

Si trattava di «ripristinare le funzioni statali, attribuendo le responsabilità costituzionali alla corona, al governo, al parlamento, alle corporazioni». Occorreva «pregare il re di assumere l'effettivo comando delle forze armate e quello che le istituzioni gli attribuiscono». Attorno a quelle dichiarazioni, prese forma una vera e propria congiura.

I migliori fra i gerarchi fascisti mostrarono una genuina tensione morale per le sorti del Paese. Il loro pronunciamento ebbe una patina di nobiltà. Al contrario, i Savoia con la loro cerchia d'impiccioni risultarono abbastanza meschini. Si preoccuparono di acquisire l'appoggio dei carabinieri. Il comandante dell'Arma Hazon - pure affidabile - era rimasto ucciso nel bombardamento a San Lorenzo. Per la successione, al più titolato ma meno docile Pièche preferirono la promozione di Cerica, che contattarono per sapere se era disponibile a obbedire. Il generale si limitò a una questione: «Ciò che mi si chiederà è legale?». Confortato che ogni iniziativa sarebbe stata avallata dal re, si mise a disposizione.

Per proteggere «il fronte interno» scelsero il generale Giacomo Carboni - padre sardo e madre americana - accreditato di un'intelligenza di prim'ordine ma appesantito dalla pochissima voglia di lavorare. La sua carriera fu una gimkana fra Stato Maggiore e servizi segreti, rincorrendo le donne più che gli impegni d'ufficio. A lui attribuirono il compito di proteggere le strutture strategiche, le installazioni, i ministeri e il Quirinale.

Il «dopo» era pronto. Restava da attuare il «prima». Nella sala «del pappagallo», sotto un ciclopico lampadario, distribuiti a ferro di cavallo, 28 scrivanie per i quadrumviri, i presidenti di Camera e Senato, il presidente dell'Accademia d'Italia, il capo di Stato Maggiore della milizia, il presidente del Tribunale speciale, i presidenti delle confederazioni fasciste e i membri cooptati per «meriti speciali»: Bottai, Ciano, Buffarini Guidi, Farinacci, De Stefani, Alfieri, Marinelli, Rossoni. Su una predella, per distinguerlo dagli altri, Mussolini che arrivò con un quarto d'ora di ritardo.

Mancò il servizio d'onore dei moschettieri ma, nel palazzo, fu un andirivieni di poliziotti in borghese. Grandi ne rimase impressionato. «È la fine» confidò a Bottai. Che gli replicò duro: «Colpa tua, sei stato tu a dare troppa pubblicità all'ordine del giorno».

Della riunione non esiste una versione ufficiale ma i resoconti dei protagonisti (Mussolini compreso) consentono di ricostruire compiutamente la discussione. Il duce ammise che la situazione era «estremamente critica» tanto da dare fiato agli oppositori, «compresi i fascisti imborghesiti che vedevano in pericolo le loro personali posizioni».

Riconobbe di essere «l'uomo più detestato perché nessuna guerra è popolare all'inizio. Lo diventa, in un secondo momento, se va bene, e si trasforma in impopolarissima se va male».Acerbo, in un appunto, posteriore di mesi, definì quell'intervento «disordinato come voce sfasata nel tempo». Autodifesa debole, dunque, senza rispondere alla questione che aleggiava nell'aria: era il momento di cambiare sistema?

Bottai espose «tre proposizioni o constatazioni». L'Italia stava per essere invasa, una difesa efficace era impossibile, i vertici erano come paralizzati. Un assist per Grandi che ebbe modo di presentare la risoluzione alla quale aveva lavorato. Era interesse del duce - argomentò - liberarsi del fardello che stava per intero sulle sue spalle. «Non è giusto» insistette «che la monarchia si tenga in disparte». Concluse con la citazione di una frase che lo stesso Mussolini pronunciò nel 1924: «Periscano tutte le fazioni, anche la nostra, purché si salvi la Patria».

Dopo una sospensione, Mussolini risultò più efficace. «Chi chiede la fine della dittatura» scandì «sa di volere la fine del fascismo». Il documento avrebbe decretato la fine del regime. Il re, liquidando lui, avrebbe liquidato tutti. L'ordine del giorno fu approvato da 19, otto contrari e un astenuto.

Mussolini domandò: «Chi porterà il documento al re?». «Tu!» gli rispose Grandi. «Bene, signori, complimenti…» concluse il duce «avete decretato la crisi del regime». Dopo la riunione, nel suo ufficio, gli consigliarono di reagire e di farli arrestare. «Quattro collari dell'Annunziata» ironizzò «il presidente dell'Accademia… ministri e ambasciatori...». Anche Rachele, sua moglie, che lo attese alzata, era dello stesso avviso. «Domani lo farò». Ma lei, con ruvida saggezza, lo ammonì: «Domani è tardi». Il duce non si comportò come un dittatore e spianò la strada al golpe contro di lui. Era domenica. Chiese udienza al re che la concesse per le 17. Doveva presentarsi «in borghese».

Mussolini, durante il suo pranzo, quasi non toccò cibo. Ritenne - erroneamente - di poter superare la crisi con un rimpasto di governo. «Prima di andare dal re, fai arrestare quelli che ti hanno votato contro». Donna Rachele tentò di spronarlo un'ultima volta, poi lo vide indossare il completo blu e calarsi sulla testa un cappello floscio. Il comando dei carabinieri annullò la libera uscita e tenne i militari consegnati in caserma.

Per l'arresto di Mussolini, si mosse un reparto di 50 uomini, comandati dal tenente colonnello Frignani. All'ultimo momento, il generale Cerica fece sapere che era impossibile operare all'esterno di Villa Savoia. Il re doveva consentire che lo si facesse nel giardino. Vittorio Emanuele III si rese conto che avrebbe infranto le regole d'ospitalità ma, in assenza di alternative disse: «Va bene…!».

Venti minuti, il colloquio. Le cronache riferirono del commento del re: «L'Italia è in tocchi. Io vi voglio bene» sembrò protettivo. «Ma, questa volta, devo chiedervi di lasciarmi libero di affidare il governo al maresciallo Badoglio». Mussolini, che già si sentiva bucare lo stomaco per il riacutizzarsi dell'ulcera, farfugliò un: «Ma, allora, è tutto finito…!». All'uscita, cercò la sua auto ma incontrò il capitano Vigneri che gli si fece incontro. «Sua maestà mi prega di proteggervi. Vi prego di seguirmi».

Non un tono affabile, piuttosto la rudezza dell'ordine. «Che esagerazione!» tentò di sottrarsi Mussolini. «Ma non ce n'è bisogno!». I carabinieri puntarono i mitra. «Da questa parte!». Lo portarono in ambulanza alla caserma Podgora, poi in quella degli allievi carabinieri e, dopo, ancora, sul Gran Sasso.

Badoglio non aveva rinunciato alla partita di bridge. Alle 17 e 30, la chiamata del re col quale discusse della lista dei ministri. Scelsero un gabinetto di «tecnici», inaugurando così una procedura alla quale si farà poi frequente ricorso, quasi mai con risultati apprezzabili. Di fatto, Badoglio governò senza governo e, l'otto settembre, smise anche di fare quello. Alla notizia, un dilagare di spontanee manifestazioni di antifascismo. La disinvoltura con cui l'Italia reagì la dice lunga sulla superficialità di un Paese, allergico agli esami di coscienza. Una moltitudine che, fino a poche ore prima, magnificava il regime trionfante, capeggiò manipoli di vandali che cominciarono a scalpellare le insegne che ricordavano il ventennio.

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