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Vado all'estero, mi rifaccio (male) e torno



Migliaia di italiani scelgono interventi estetici «extra confine»: in Turchia o in Albania, in Romania o in Tunisia, per restare alle mete più frequentate. Luoghi decisamente più a buon mercato, ma dove gli inconvenienti postoperatori possono trasformarsi in un calvario. E in un costo per il nostro Servizio sanitario nazionale.

Un viaggio all’estero davvero «all inclusive», dal volo all’albergo, dai pasti al seno nuovo. O al naso rifatto. Oppure agli zigomi risollevati... «Perché non unire l’utile al dilettevole, abbinando il soggiorno in una destinazione esotica a un intervento di chirurgia plastica?» invita una locandina turca (ma non è la sola) del cosiddetto «bisturi trip». Invito spesso raccolto: secondo i dati della International society of aesthetic plastic surgery (Isaps), che raduna i chirurghi plastici di 84 Paesi, le principali mete di chi valica i confini per sottoporsi a un intervento estetico sono: la Turchia, dove il 32 per cento delle operazioni fatte nel 2021 sono state su pazienti provenienti dall’estero. A seguire Colombia, Messico e Thailandia. Gli europei in genere non attraversano l’oceano ma, dopo la Turchia, optano per Albania, Romania e Tunisia. Si stima che gli italiani - non esistono statistiche ufficiali - che vanno oltrefrontiera per ritocchi estetici siano, come minimo, nell’ordine delle migliaia. La ragione delle trasferte è puramente economica. Se in Italia per una rinoplastica si pagano dai cinquemila agli ottomila euro, in Turchia, viaggio compreso, si parte dai 2.500, come in Albania. Rifarsi il seno da noi costa tra i 4.500 e i novemila euro, a Istanbul ne chiedono tremila con annessa visita alla Moschea Blu. E in Romania il prezzo scende a 2.500.

In queste destinazioni c’è anche la scelta: vuoi che ti operi il «professore» o il «medico specialista»? La differenza è di circa 500 euro. «Il processo di chirurgia plastica in cinque passi» recita ancora la locandina turca. «Pianifica il tuo volo. Ti salutiamo a Istanbul. Facciamo l’intervento. Scopri Istanbul. Torna a casa felice». Non è andata così, giusto per fare un esempio, a Svetlana Honizkaia, estetista 48enne di Civitanova Marche, morta a metà novembre, due giorni dopo un intervento di chirurgia estetica in Marocco. Ancora non si conosce la causa, ma che sia avvenuta a ridosso di un intervento fatto all’estero appare sospetto. Perché imprevisti e pericoli non mancano. Lo studio «Infective complications of cosmetic tourism: a systematic literature review» pubblicato lo scorso settembre su Journal of Plastic Reconstructive & Aesthetic Surgery, ha svelato che, da marzo ad agosto 2022, i pazienti operati in Sudamerica che hanno avuto complicanze infettive sono stati 370. L’intervento più implicato è stata l’addominoplastica, anche se a spedire maggiormente in terapia intensiva è stato quello per l’aumento dei glutei. Altri rischi del postoperatorio: ferite necrotiche, protesi mammarie infette, tromboembolismo venoso.

«Perché sottoporsi a un intervento chirurgico invasivo in un Stato che non ha le stesse rigide regole del nostro ministero della Sanità?» si chiede Stefania De Fazio, presidente della Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva-rigenerativa ed estetica (Sicpre). «In Italia, per esempio, è obbligatorio il registro delle protesi per il seno: così abbiamo la certezza che siano sicure. Se si va all’estero, come potrai sapere cosa ti hanno inserito? Che leggi ci sono per il “setting” chirurgico sterile, o i materiali impiegati? Per risparmiare tanto rispetto all’Italia da qualche parte devono tagliare i costi. Si pagano meno gli operatori perché là il costo della vita è diverso, ma le protesi mammarie hanno lo stesso prezzo in ogni parte del mondo». Dettaglio non trascurabile: il chirurgo sarà abbastanza esperto in materia? In Italia il ministero della Salute nel 2012 ha stabilito che a inserire le protesi mammarie in strutture ospedaliere o universitario dev’essere solo il medico specializzato in chirurgia plastica, ricostruttiva ed estetica, il chirurgo toracico o generale e il chirurgo ginecologo. «Da noi non può succedere che intervenga sul seno un ortopedico, anche se chirurgo. Almeno in ospedale. In Turchia a effettuare la blefaroplastica potrerebbe anche essere, in teoria, un chirurgo addominale».

È questo uno dei motivi delle tante complicanze. E poi: affrontare un viaggio dopo un intervento, spesso multiplo, non è consigliabile: stare seduti in uno spazio ristretto per un periodo prolungato aumenta l’eventualità di tromboembolia. «Questi viaggi» prosegue De Fazio «hanno come specchietto per le allodole il fatto che starai in albergo cinque stelle, con la limousine che ti viene a prendere. Non dicono che dopo gli interventi, spesso combinati perché all’estero con facilità fanno contestualmente seno e lipoaspirazione, sale il rischio di aggregabilità piastrinica. E di infezioni. L’unica fortuna? Che si rientra in Italia, che accoglie le complicanze e le fa proprie».

A differenza degli Stati Uniti, dove un paziente che torna dal turismo estetico deve pagare di tasca propria la terapia di recupero, in Italia le «riparazioni» sono a carico della Sanità pubblica. In pratica, sono i contribuenti a pagare per operazioni di chirurgia estetica (mal) fatte in altri Paesi. «Ma perché io, chirurgo italiano che ho fatto il giuramento di Ippocrate, devo porre rimedio ai problemi provocati da un collega straniero?» conclude la dottoressa. «Inoltre devo operare per deduzione: il più delle volte non è disponibile una cartella clinica che spieghi cosa è stato fatto, e se c’è può non essere affidabile. Noi chirurghi plastici ci confrontiamo spesso sulle complicanze di riduzioni dell’addome effettuate altrove che degenerano in necrosi dei tessuti con guarigioni lunghe e interventi secondari correttivi. Effetti collaterali di cui i pazienti non sono abbastanza informati». Il fatto di optare per un intervento di chirurgia non «di urgenza» come quella estetica non significa che si possano saltare passaggi quali il colloquio, la valutazione del paziente, le sue aspettative. La pianificazione è il momento in cui chi si opera acquisisce la consapevolezza di cosa avverrà e cosa potrebbe accadere in seguito. «In Italia non funziona che ci si sveglia, si dice “voglio fare una rinoplastica”, e il chirurgo ti opera» sostiene Francesco D’Andrea, direttore del Dipartimento di chirurgia plastica ed estetica del Policlinico Federico II di Napoli. «Ci sono passaggi e incontri in cui il medico può anche decidere di non procedere se non ci sono le indicazioni. La fase chirurgica è solo una tappa di un viaggio che può diventare più complicato una volta usciti dalla sala operatoria».

Il decorso dopo l’intervento è poco prevedibile. «Già pensare di tornare a casa subito dopo è sbagliato, in questi casi ci si ritiene guariti dopo 15-20 giorni. Se insorgono complicanze in un ambiente protetto, possono essere affrontate e risolte. Diventano gravi se trascurate perché non c’è nessuno che dia indicazioni sul da farsi. Allora i pazienti arrivano da noi in ospedale in fase avanzata quando anche l’intervento stesso è compromesso». Un consulto «de visu» con il medico non è paragonabile all’invio di una foto via smartphone. La telemedicina esiste ma è essenzialmente per fini diagnostici. «Ho visto infezioni che comportano l’apertura delle ferite, fino all’esposizione delle protesi mammarie con necessità di rimuoverle» prosegue D’Andrea. «Interventi vanificati da complicanze infettive, o legate a errori di tecnica, risultati insoddisfacenti per esecuzione scorretta. Come seni asimmetrici per protesi impiantate male, da rimuovere e da riposizionare. O addominoplastiche che hanno lasciato cicatrici troppo estese o troppo alte».

In tal caso è impossibile rivalersi su chi ha sbagliato. Il foro di competenza è straniero, è diversa la legge e pure la lingua. «Come si fa a comunicare bene le proprie richieste e aspettative a un medico che non parla italiano?» si chiede l’avvocato Luciano Palermo, specializzato in casi di malasanità. «Come comprendo davvero i rischi? Il fulcro di qualsiasi intervento è il consenso informato: conviene sottoscrivere un documento in una lingua che non è la mia? E se è tradotto in italiano, chi garantisce la validità della traduzione?». Secondo un rapporto del ministero della Salute, il deficit di comunicazione è al secondo posto tra le cause di risarcimento in ambito sanitario anche quando sia il medico che il paziente parlano italiano. Se si esprimono in lingue differenti, il problema non può che essere amplificato. «Anche per questo il ristoro economico, alla fine, è quasi impossibile da ottenere» riflette Palermo. «Bisogna affidarsi a un legale locale, magari chiedendo all’ambasciata italiana un elenco di professionisti che parlino italiano. E come lo scelgo? Come capisco chi è più ferrato? Quali saranno le mie garanzie sulla corretta applicazione delle parcelle? Una strada tutta in salita». Vista la quasi impossibilità di essere indennizzati, cosa fare per garantirsi quantomeno un’assistenza adeguata in caso di complicanze? La soluzione più semplice è rivolgersi a una compagnia assicurativa di un certo livello tra quelle che prevedono un pacchetto per interventi estetici all’estero. Non si riceverà una grande somma come risarcimento ma almeno ci si potranno permettere cure in forma privata senza dover attendere anni e, soprattutto, senza pesare sul Servizio sanitario nazionale.

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