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Scommessa Africa



Mentre il governo italiano è concentrato a sviluppare nel continente il suo «Piano Mattei» - ovvero investimenti strategici che puntano a una crescita reciproca di aziende ed economia - c’è chi critica con argomentazioni ambigue. La cosa curiosa: sono gli stessi che alla fin fine portano proprio da quelle parti pezzi d’Italia. A spese nostre.


Colonialista. Altro che rinsaldare le relazioni economiche tra Italia e Africa. Persino il nome scelto dal governo: «Piano Mattei». Colonialista pure quello. Repubblica, posseduta dagli immacolati eredi Agnelli, freme d’indignazione. Con la schiena dritta come un fuso, imbastisce un nuovo processo a Giorgia Meloni. Il quotidiano è scatenato. Strategia dalle «gambe corte». Un «vorrei ma non posso». Una politica estera che rievoca il «regime fascista». La premier, piuttosto, prenda magari esempio dal munifico editore del quotidiano. Dimentichi il patriota Mattei, manager di Stato che ci affrancò dal giogo petrolifero delle «sette sorelle». Per risollevare il Paese ci vorrebbe invece un piano Elkann, da intitolare sempre al munifico editore. Si fa in fretta: basta chiudere gli stabilimenti in Italia e riaprirli in Marocco. A dispetto dei 220 miliardi di aiuti pubblici ricevuti dall’ex Fiat negli ultimi cinquant’anni. Turboliberista. Ma solo alla bisogna.

Una sfrontatezza che finisce, paradossalmente, per confermare l’assioma del governo. Il futuro passa dall’Africa. Ha tre miliardi di abitanti, la metà con meno di vent’anni. Il Pil è raddoppiato negli ultimi tre lustri. Ha grandi risorse naturali. Un enorme potenziale per le rinnovabili. È un mercato cruciale per vincere la sempiterna sfida della globalizzazione. Il governo decide quindi di investire 5,5 miliardi di euro nei prossimi quattro anni. Con una logica opposta, ovviamente, a quella di Stellantis: avvantaggiare gli scambi tra Italia e il continente. Seguendo piuttosto l’esempio di aziende statali, parastatali e private. Il ministero degli Esteri ragguaglia: nel 2022 ci sono stati 27 miliardi di investimenti verso l’Africa. Nel 2013 c’era solo un ufficio dell’Istituto per il commercio estero: a Johannesburg, capitale del Sudafrica. Adesso sono otto.

L’ultimo censimento dettaglia: si contano oltre 1.800 imprese italiane negli Stati africani. Energia, costruzioni, traporti, logistica, meccanica. E agroalimentare, il settore più in espansione. Per aumentare vendite e produzione. Soprattutto dopo la crisi internazionale della materie prime, deflagrata con la guerra in Ucraina. La Airone Seafood di Reggio Emilia, per esempio, in Costa d’Avorio dà lavoro a 1.500 persone, e oltre la metà sono donne. Ad Abidjan, ogni anno, vengono lavorate 23 mila tonnellate di tonno appena pescato: 150 milioni di lattine. E adesso anche Rizzoli Emanuelli sta costruendo uno stabilimento ittico in Tunisia.

Daniele Francescon, poi, è il re dei meloni. Ma l’Italia non basta. D’inverno, niente meloni. Troppo freddo. In Senegal, invece, il sole splende. Così a Tassette, piccolo villaggio a quaranta chilometri da Dakar, sono stati riconvertiti 170 ettari di lande desertiche. E ora una società di diritto senegalese, Frutta Italia, impiega duecento persone. La veneta Pedon, che coltiva fagioli in Etiopia, è stata magnificata perfino da Bill Gates (nessuno è perfetto). Mentre la start-up Sweet Africa produce in Kenya frutta tropicale secca ed essiccata. Anche Bf, il più importante gruppo agroindustriale italiano, punta su quel continente per il suo sviluppo internazionale. Era già in Egitto, Tunisia, Congo e Angola. Lo scorso giugno è arrivato in Algeria, dove produrrà grano duro con un’azienda locale. E un mese fa viene annunciata la collaborazione, in Ghana, con la società Musahamat farms. Che porta in dote, oltre a 260 lavoratori, circa 1.700 ettari. Se ne aggiungeranno altri 5.900. Totale: 7.600. Da destinare a mais, soia, grano, riso e pomodoro.

Nei paesi africani Bf si dedica anche alle colture per i biocarburanti, insieme all’Eni. E qui apriamo il capitolo più voluminoso. Per restare in tema: da luglio 2022 il «cane a sei zampe» produce olio vegetale a Wote, in Kenya. Sono i semi di 25 mila piccoli agricoltori, riuniti in cooperative. Vengono poi mandati in Italia, nelle raffinerie verdi di Gela e Marghera. Ma l’Eni è massicciamente presente in 13 Paesi africani, dove estrae soprattutto gas e petrolio. L’amministratore delegato, Claudio Descalzi, lo scorso settembre, annuncia di voler investire 7,7 miliardi di euro. Solo in Egitto. Tanto che, un anno fa, il manager si guadagna la copertina di Forbes Africa. L’approccio è quello del suo più illustre predecessore: l’indimenticabile Mattei. A sua volta, preso in prestito dal governo. Il mitologico manager di stato, del resto, viene citato dalla premier persino nel suo discorso di insediamento a Montecitorio: «Un grande italiano che fu tra gli artefici della ricostruzione post bellica, capace di stringere accordi di reciproca convenienza con nazioni di tutto il mondo».

Presentato lo scorso 11 gennaio, il Piano punta «a promuovere lo sviluppo italiano nel continente africano». Esportazioni, investimenti, infrastrutture, reti digitali, fonti rinnovabili, economia circolare. Con il decisivo supporto, ovviamente, delle società partecipate che hanno già avviato progetti. Come l’Enel, che ha investito 2,4 miliardi per costruire impianti di energia solare ed eolica. E per quest’ultima punta sul Sudafrica. O Terna, il gruppo che gestisce la rete elettrica. Assieme a Steg, omologa del Maghreb, sta realizzando un elettrodotto tra Italia e Tunisia: Elmed. Grazie anche ai 307 milioni concessi dalla Commissione europea.

Cassa depositi e prestiti, negli ultimi anni, ha invece investito oltre 600 milioni. Nella lista c’è pure Snam, che controlla la rete italiana dei gasdotti. Costruirà, con tedeschi e austriaci, il SoutH2 Corridor: 3.300 chilometri di tubature che permetteranno di importare dal Nordafrica quattro milioni di tonnellate all’anno di idrogeno. E poi, ovviamente, c’è l’Eni del lungimirante Descalzi: «L’Africa è il nostro futuro» diceva già nel 2016.

Ci sono altri esempi molto meno virtuosi. La perfetta antitesi della dottrina Mattei. Prendi i soldi dall’Italia e scappa in Africa: a Kenitra, vicino a Rabat, per l’esattezza. Così ha fatto Stellantis. Direte: e cosa c’entra ormai l’ex Fiat con il nostro Paese? Poco, in effetti. Dopo aver spostato la sede legale in Olanda, comincia a smantellare, partendo dallo storico stabilimento di Mirafiori. A dispetto dell’invidiabile record raggiunto: è l’azienda più sussidiata della storia patria. Il gruppo in Marocco aveva già una fabbrica, usata dalla Peugeot. A ottobre 2023 decide così di ampliarla, con una seconda piattaforma da destinare anche alla produzione di auto elettriche. Progetto da 300 milioni di euro. D’altra parte, già a luglio l’ex Fiat aveva confermato che la nuova Topolino sarebbe stata realizzata a Kenitra.

Il dirimente punto non è solo il gruppo guidato da John Elkann, che issa bandiera tricolore solo quando c’è da chiedere cassa integrazione per gli operai. O aiuti statali, nonostante i fantasmagorici utili del 2023: 18,6 miliardi. «Di italiano l’ex Fiat non ha più nulla, chiede solo incentivi» svelena Carlo Calenda, leader di Azione ed ex ministro dello Sviluppo economico. Che rivela anche l’accorata lettera inviata da Stellantis ai fornitori. In sintesi: venite a investire con noi in Marocco. Nella missiva, racconta Calenda, vengono decantate le imperdibili opportunità: «Oltre alla lettera, hanno inviato un dépliant del governo che esalta le facilitazioni per l’industria dell’automotive in quel Paese».

Accuse non recepite dal quotidiano di famiglia: Repubblica. Che invece, per demolire lo spregevole intento governativo, decide addirittura di setacciare il continente africano a caccia di voci dissonanti. Il quotidiano Gedi mena fendenti da jedi. E dopo accuratissime inchieste, conclude stentoreo: bieco neocolonialismo predatorio. Esemplificato, appunto, già dal nome del piano: Mattei. Le sue gesta vennero raccontate, nel 1962, perfino in un documentario della Bbc: «L’italiano più famoso dopo Giulio Cesare». Altro che eroe nazionale, insinua però Repubblica. Vuoi mettere con quei rinomati benefattori degli Agnelli?

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