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Annie Ernaux: la (mia) vita in prima persona

Quando 36 anni fa uscì Il posto, la Francia capì di avere tra le mani una voce diversa da qualunque altra. L’autrice era una normanna quarantenne, insegnante di liceo, femminista, con due figli e un matrimonio finito. Il posto non era un romanzo: nel racconto della vita di suo padre – contadino, poi gestore di un bar drogheria – Annie Ernaux aveva convogliato due esigenze: il recupero della propria infanzia e il tentativo di ricucire uno strappo. Strappo di cui diremo dopo.

Quel libro ebbe un successo straordinario, e lo stesso accadde ai successivi (ormai sono una ventina: in Italia, la casa editrice L’Orma ne ha, finora, ripubblicati sei). In ciascuno Ernaux – che a 79 anni è la più importante scrittrice contemporanea del suo Paese, collezionista di premi tra cui il recente Von Rezzori – riporta a galla e seziona episodi del proprio passato: l’aborto clandestino, l’amour fou per un diplomatico russo, la prima volta, violenta e traumatica, la malattia e la morte della madre, il tumore al seno, la violenza domestica, la scoperta dell’esistenza di una sorella morta. Il suo obiettivo non è tanto raccontare se stessa quanto restituire una memoria condivisa il più possibile vicina alla verità e lo fa fondendo l’io personale con un io collettivo (quindi politico: magistrale l’esempio degli Anni) dove ciascun lettore si possa proiettare.

Il lavoro di Ernaux, che ha messo in discussione il genere, è ibrido e inclassificabile. Non è autofiction e lei stessa ha sempre rigettato il termine: nei suoi libri non c’è «finzione di sé» (in Memoria di ragazza dice: «La ragazza della foto non è me, ma non è una finzione») e non importa se questo implica un tempo di scrittura più lungo. «Riportare alla luce fatti dimenticati non mi veniva così facile come inventarli. La memoria fa resistenza», scrive nel Posto, e infatti ogni libro è preceduto da una lunga fase di riflessione che Annie annota meticolosamente su quaderni che definisce «atelier senza luce» (che in Francia sono stati anche pubblicati), ai quali attinge come a materia viva. Non è nemmeno semplice autobiografia: manca lo scavo psicologico e il pathos. Quello che fa è forse più vicino al lavoro di un’etnologa: attraverso i suoi racconti intimi, detti in prima persona senza abbellimenti e interpretazioni, mira alla costruzione di un’identità più ampia.

La chiamo al telefono a Cergy, nell’Île-de-France. Il suo giardino dà sull’Oise, l’affluente della Senna ritratto dagli Impressionisti e soprattutto da Van Gogh, che è sepolto nella vicina Auvers. Quando non scrive o non legge («mi accorgo di avere una vita totalmente immersa nella letteratura»), mi dice, «resto qui a contemplare la natura». La sua è una voce di ragazza.
Si ricorda che cosa la spinse a scrivere il suo primo libro?
«Era un motivo sia personale che collettivo: essere nata in una famiglia popolare, avere studiato ed essermi separata dalle mie origini. Scrivere è stato un modo per far esistere ciò che è stato. Un’operazione simile l’ho ritrovata nello scrittore italiano Ferdinando Camon (nel 1978 vinse lo Strega con Un altare per la madre, ndr)».

Quando si è resa conto della portata innovatrice dei suoi scritti?
«Forse non l’ho ancora completamente realizzata! Però credo che, quando si scrive, bisogna fare qualcosa che non sia mai stato fatto. Se no, non ne vale la pena».

Nei suoi libri, più che una vera trama, si vede lo scorrere del tempo. Edna O’Brien, un’altra che ha scritto molto di sé, ha detto: «Fuck the plot». È d’accordo?
«Non mi interessa la trama, ma la costruzione del libro: la scrittura, la frase, l’unicità di ogni parola, ritrovare le cose come sono state veramente vissute. È questo che mi importa quando scrivo su mia madre, mio padre o qualsiasi altro argomento».

Parliamo dello «strappo»: la sua scrittura nasce da un senso di colpa verso i suoi genitori, dall’avere tradito le sue origini proletarie per passare all’universo borghese, cioè dalla classe dominata a quella dominante. I suoi libri sono una specie di «risarcimento» nei loro confronti?
«Non so se sono riuscita a saldarlo, quel debito: la cosa migliore che ho potuto fare era scriverne, tramandarne una conoscenza che non passava solo per lo spirito, ma soprattutto per il corpo e il linguaggio. E farlo in un modo che fosse giusto e non romanzato».

Anche lo scrittore Édouard Louis (Storia della violenza, Chi ha ucciso mio padre) ha come scopo quello di trattare i temi trascurati dalla letteratura mainstream, le storie degli esclusi, o come li chiama lei delle «petits gens», cercando per loro una «rivincita».
«Penso che io e lui stiamo andando nella stessa direzione, per giunta lavorando con un materiale simile».

Lei è stata molto influenzata dal sociologo Pierre Bourdieu, soprattutto dal concetto di «violenza simbolica», usata dagli agenti sociali al comando per mantenere il proprio controllo. Pensa sia valido tutt’ora?
«Sì. Assolutamente. E ora ne sono consapevoli anche coloro che sono dominati, veda i gilet gialli».

Che differenza c’è nel modo in cui lei e Proust «usate» la memoria?
«Quella di Proust, come la mia, era fondata sulle sensazioni, ma la sua era sempre molto personale, intima, fondata su reminescenze legate a momenti della sua vita. La mia memoria è più sociale e storica, e meno legata a me, pur restandone sempre io il ricettacolo».

Come riesce a mettere insieme le sensazioni e la scrittura piatta ed essenziale che è una sua caratteristica?
«Non posso scrivere senza provare delle emozioni, ma queste restano nel mio corpo e nella mia testa, non le faccio affiorare nella pagina. La mia scrittura piatta è nutrita dalle sensazioni che restano, però, dietro le parole».

Che cosa la commuove?
«La giustizia. L’umiliazione delle persone, dei bambini non amati».

C’è qualcosa che non potrebbe mai raccontare?
«Ci sono moltissime cose che non dico, ma non perché siano dei segreti, semplicemente perché non rientrano nel progetto di un libro. Lo scopo non è mai la rivelazione, ma il libro».

Esiste per lei una «scrittura femminile» o è solo l’imposizione di un punto di vista patriarcale?
«È una questione complicata. In letteratura ci sono dei temi, come la guerra, trattati dagli uomini sostanzialmente perché le donne non hanno potuto avere accesso alla loro stessa prospettiva. Penso che la scrittura delle donne e quella degli uomini debbano in qualche modo ricongiungersi. Una delle differenze principali è dovuta alla diversità del corpo femminile e di quello maschile. Per esempio, le donne hanno un rapporto più stretto con il tempo per via del ciclo mestruale, della maternità, della menopausa»

Parlando del movimento MeToo, pensa sia stata una vera rivoluzione?
«Quanto meno ha segnato un buon punto, dopo anni di stagnazione, anzi, di reflusso. È un fenomeno che non può essere ignorato. Ma la situazione maschile è troppo comoda: per cambiarla saranno necessarie molte altre lotte».

Lei ha due figli maschi.
«Sono entrambi femministi».

Quanto è stata importante la passione amorosa nella sua vita?
«Non è stata particolarmente determinante. È stata soprattutto passeggera, come ho raccontato nel libro Passione semplice, ma è normale: la passione stessa è effimera».

Che cosa significa, per lei, «lasciare una traccia»? Pensa che la lascerà?
«Spero, anche non si può essere sicuri di niente. Ma una cosa più importante è l’effetto reale che i mie libri possono avere, oggi, sulle persone. Nel mondo in cui vivo, i miei testi sono in azione, e questo mi importa di più del lasciare una traccia».

* Una donna, di Annie Ernaux (L’Orma, pagg. 112, € 13; traduzione di Lorenzo Flabbi). Nel romanzo vincitore del premio Von Rezzori 2019 la scrittrice racconta della madre morta di Alzheimer.

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