“Non ho parole!” con Grimalda, vita da attrice da Trieste in giù
foto da Quotidiani locali
TRIESTE Tra l'intervista e il recital, Emanuela Grimalda è pronta a ripercorrere con la complicità della giornalista Elisa Grando, le tappe più significative della sua carriera d'attrice iniziata a Trieste, proseguita a Bologna dove ha frequentato il Dams e si è diplomata alla scuola di Teatro Galante Garrone, per continuare a Roma, abbracciando teatro, cinema e televisione. “Non ho parole! Una vita da attrice da Trieste in giù” va in scena al Teatro Miela, sabato, alle 20.30, nell'ambito della rassegna “Protagoniste”. «Sarà una retrospettiva da viva – spiega scherzando Grimalda – dove racconterò il mio percorso attraverso ricordi, aneddoti curiosi, i miei monologhi teatrali e alcuni inediti triestini».
Come mai “Non ho parole!”?
«Volevo dare valore al percorso che ho fatto e magari ispirare qualche giovane a inseguire i propri sogni. Quando ho iniziato la mia carriera sono partita da un punto allora periferico, quindi mi sembrava impossibile riuscire a fare questo mestiere. Inizialmente avevo pensato a “La ragazza col Montgomery”, che riprendesse il titolo del film “La ragazza con la valigia”, poi parlando con Stefano Dongetti è saltato fuori “Non ho parole!”. “No go parole, no savessi cossa dir, però inveze parlerò tanto...”».
Com’era Emanuela Grimalda ai tempi del Nordio?
«Al primo anno ero una ragazzina timidissima, coi capelli lunghi, venivo da Borgo San Mauro che era più che periferia. Quella sensazione quando l'insegnante ti chiama alla lavagna e tutti ti guardano, per me era tremenda. Non avrei mai pensato di fare un mestiere diverso da quello che immaginavo, vista la mia timidezza: credevo che le arti figurative da fare nella propria stanza sarebbero state più adatte a me, ma sarei morta di fame».
Negli anni in cui frequentava il Nordio ha cominciato a seguire i corsi di recitazione all'Idad...
«Non pensavo di fare l'attrice, mi iscrissi perché volevo fare qualcosa. Avevo come insegnante Omera Lazzari, molto brava, che ci faceva fare le poesie di Diego Valeri. In classe al Nordio mettevo in pratica ciò che avevo imparato a dizione: “Buongiorno” lo dicevo con la “o” chiusa, ma, all’inizio, quando non riuscivo ancora a dosarla, risultavo esagerata. Ricordo che disegnai le scenografie di “Pinocchio” per il teatro ragazzi e andammo in trasferta a Klagenfurt».
Che effetto le fa ritornare a Trieste a raccontare alcune tappe più significative della sua vita?
«Mi emoziona. In questo “spettacolo”, più che celebrarmi, celebro un momento, un percorso, una festa che vorrei condividere con altre persone che ho incontrato durante la mia vita».
Ora “La ragazza col Montgomery” com'è?
«Crescendo ci si accorge che si cambia molto ma che si resta, in fondo, sempre uguali. Rispetto alla ragazza che ero, ho superato tante paure e ho cercato di far diventare i miei sogni realtà. Bisogna darsi da fare. Parlerò anche dei miei fiaschi: adesso che viviamo in un’epoca di grandi prestazioni, dove bisogna subito ottenere ottimi risultati, ci tengo che arrivi il messaggio che per raggiungere certi obiettivi è inevitabile cadere e rialzarsi. Niente è definitivo. Tutto può cambiare. Tutto è in movimento. Quando si celebra qualcosa c’è sempre anche una poltrona vuota; questa poltrona vuota è quello che ancora si deve raggiungere, non è l’arrivo».
“Mai molar”?
«Certo, chi molla? Per fortuna ho incontrato l’arte!».