La mia Alice Munro, tra desiderio e impulsività. Voglio ricordarla con un suo racconto
Fu mia madre la prima a parlarmi di una scrittrice canadese di cui Einaudi aveva pubblicato una raccolta di racconti. Comprai dunque Il sogno di mia madre di Alice Munro, nove racconti che mi fulminarono. Nel senso letterale del termine, mi lasciarono immobile, attraversata da una scossa che non si spegneva anche una volta chiuso il libro. Era il 1998 e la traduzione perfetta era quella di Susanna Basso che poi avrebbe tradotto, sempre per Einaudi, tutta la sua opera.
Scrittrice prolifica (ha scritto oltre undici raccolte di racconti e due romanzi), Munro è nata nel 1931 nella zona sudoccidentale dell’Ontario che si chiama Sowesto (nome che gli è stato dato dal pittore Greg Curnoe), zona, secondo il pittore, molto cupa e strana, colma di fiumi, di campi coltivati e che si protende come una penisola fra due enormi laghi. È importante tenere presente questo paesaggio perché fa da sfondo a tanti suoi racconti: e che ha ispirato quelli più sinistri e misteriosi come lo splendido Una donna di cuore.
I suoi racconti grondano di acqua: acqua che scende dal cielo su amanti posseduti dalla passione, acquitrini in cui si nascondono ragazzini che vogliono custodire un orribile segreto, traghetti che solcano il lago e che riportano verso casa donne stravolte da un’avventura esaltante ma chiusa per sempre. Nei suoi racconti c’è anche tanta terra da attraversare in automobile per personaggi in fuga da una storia dolorosa, da appuntamenti mancati, donne in viaggio verso le case e i piccoli giardini curati della loro infanzia.
Ha scritto giustamente Margaret Atwood nell’Introduzione alla splendida raccolta Lasciarsi andare che riunisce i racconti scritti da Munro dal 1977 al 2014, “La lotta per l’autenticità (nell’opera di Alice Munro) si combatte in maniera significativa in campo sessuale. Il mondo di Munro (…) porta con sé una forte carica erotica che si diffonde intorno a ogni personaggio come un alone di luce al neon, illuminando paesaggi, stanze, oggetti. Alice Munro fa dire a un letto sgualcito molto più di qualunque descrizione esplicita.(…) I personaggi di Munro avvertono la chimica sessuale che si scatena negli incontri (…) innamorarsi, abbandonarsi al desiderio, raccontare bugie essere costretti ad azioni disdicevoli spinti da un desiderio irresistibile (…)”.
A me la parole chiave di tutta la sua opera mi appare essere “desiderio”: forza dirompente che spinge come una folata di tempesta il personaggio verso le sue scelte, annienta i suoi sforzi per rimanere all’interno del recinto del buon senso, delle convinzioni, della sicurezza data dall’istituzione familiare. Il desiderio mai giudicato, solo descritto attraverso i fatti, le azioni, gli impulsi improvvisi, le scelte coraggiose dei bellissimi personaggi dei suoi racconti.
Altra grande abilità di questa raffinata maestra del racconto è la sua capacità di deviare all’improvviso, di dare quella che ho definito una “scossa” al proprio lettore con fluida semplicità, senza prepararlo allo scarto, all’impennata narrativa che emerge, come un’onda anomala, nel mare apparentemente tranquillo della narrazione.
Voglio però tornare a un racconto pubblicato dal primo suo libro che ho citato all’inizio e che lessi più di vent’anni fa. È questo da cui voglio partire per ricordarla ora che è morta, all’età di 93 anni, nel suo Ontario. Quando lo lessi ero molto diversa dalla donna che sono oggi, eppure, rileggendolo, niente è cambiato dall’incanto di allora. Il racconto si chiama Le bambine restano.
Inizia come una fiaba: “Trent’anni fa, una famiglia stava trascorrendo le vacanze sulla costa orientale di Vancouver Island. C’erano un padre e una madre, due figlie piccole e una coppia di mezza età, i genitori di lui. Che clima incantevole. Ogni mattina, senza esclusioni, la stessa cosa: i primi raggi di sole che filtrano tra i rami alti degli alberi e prosciugano la foschia delle acque ferme del Georgia Strait. Con la bassa marea, un’ampia striscia deserta di sabbia ancora bagnata(…)”. Le giornate scivolano via tra il cottage sulla spiaggia, la sabbia e il mare, i discorsi lievi e dolcemente banali, l’accudimento delle due bambine, Caitlin e Mara; le attenzioni premurose di Brian, un marito amorevole.
Ma in questo adagio così rassicurante palpita già un’inquietudine, la si sente arrivare quando Pauline, la giovane madre, cerca di ritagliarsi qualche attimo di solitudine per ripassare le battute della piéce teatrale dove recita la parte di Euridice. Niente di che, una semplice compagnia di teatro amatoriale che lei ha frequentato con passione prima di partire per quelle vacanze. Il regista della piéce è Jeffrey, un ragazzo di 25 anni, uno meno di lei. Quando lei gli aveva annunciato che sarebbe partita per le vacanze, il ragazzo era rimasto di stucco, “come se non potesse concepire l’ipotesi che nella vita si verificassero fenomeni come le vacanze”.
Il quadro preciso, tangibile della routine si fracassa all’improvviso, Jeffrey la raggiunge al telefono e dice “sono qui, in un motel”; Pauline non è più lei, inventa una scusa e abbandona tutto, figlie, marito amorevole e innamorato, suoceri solleciti e affettuosi, tutto viene spazzato via e la felicità è ora una stanza di uno squallido motel. “E così la vita franava; diventava anche lei una di quelle che scappano. Di quelle che in modo del tutto inatteso e incomprensibile rinunciano a tutto. Per amore, avrebbero detto sbrigativamente gli altri. Vale a dire, per sesso. Non sarebbe successo nulla, non fosse stato per il sesso”.
Ha deciso, partirà con il suo amante, confessa tutto al marito. La mattina presto esce dal motel per comprare il dentifricio, visto che si è allontanata con solo i vestiti che aveva indosso.
“È presto. Il motel si trova sullo stradone all’estremità del paese. Non c’è ancora traffico. Pauline cammina svogliatamente sotto i pioppi neri (…) Ecco, arriva qualcosa. Un camion. Ma non è solo un camion. È una realtà enorme e sinistra, quella che le viene addosso. E non proviene dal nulla, era in attesa. Non ha fatto altro che spintonarla ferocemente da quando è sveglia, per non dire da tutta la notte.
Caitlin e Mara.
Ieri sera al telefono, dopo aver parlato con quel tono di voce spento e controllato, quasi cortese come si facesse un vanto di non apparire scioccato, di non sollevare obiezioni né suppliche – Brian l’ha detto. Con disprezzo e con furia e senza preoccuparsi di chi potesse ascoltare:
– Bene, allora, e le bambine? –
Il ricevitore ha cominciato a tremare all’orecchio di Pauline.
Ha detto: – Ne parleremo…- Ma a quanto pare lui non ha sentito.
-Le bambine, – ha ripetuto, in tono vibrante e vendicativo. Quel modo freddo di chiamarle, “le bambine”, è stato per lei come l’abbassarsi violento di una saracinesca – come una minaccia dura, ufficiale, inappellabile.
– Le bambine restano, – ha detto Brian. – Pauline. Mi ha sentito?”
Grazie Alice Munro, non ti dimenticheremo. (E un grazie a mia madre che me la fece conoscere).
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