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Notti tragiche, i 24 morti dimenticati di Italia ’90

Notti tragiche, i 24 morti dimenticati di Italia ’90

foto da Quotidiani locali

Il loro Mondiale di calcio è un lavoro fatto di poco pane e molta fatica. Ogni giorno sono otto ore e tanti straordinari, spesso non pagati, in un cantiere fangoso, piovoso o con il sole a picco che acceca sguardi e riflessi. Sono giornate di affanni quasi sempre per tirare a campare, fino al prossimo cantiere da aprire come al solito in fretta e senza troppi riguardi per la sicurezza. Siamo nell’Italia a ridosso del 1990, 30 anni fa; siamo nell’Italia che nei cantieri del Mondiale vede morire più di due squadre di calcio, 24 uomini colpevolmente dimenticati allora e ancor più oggi, in questi giorni in cui si celebrano le partite degli azzurri del ct Azeglio Vicini, gli occhi stralunati di Totò Schillaci, le magie di Roberto Baggio e il trionfo solo sfiorato.

Quelle che sono le Notti magiche dell’inno ufficiale oscurano nei ricordi le Notti tragiche delle famiglie di chi al mattino è uscito di casa per andare a lavorare e non è mai tornato. In dodici sono morti nei cantieri degli stadi, altrettanti in quelli delle opere accessorie (strade, parcheggi, servizi vari) e in tutto sono 678 gli infortuni sul lavoro legati al Mondiale italiano, un’enormità. Peraltro un record che sarà spazzato via solo dalle opere messe in piedi in stato di semischiavitù nel Qatar in vista dell’edizione 2022. Qui si parla già di oltre duemila morti e il conteggio è incerto perché i Capi dei Capi della Federazione mondiale, quelli dell’epoca di Sepp Blatter, hanno chiuso più di un occhio e aperto più di qualche borsa per le tangenti. Ma a parte questa carneficina, quello italiano è il Mondiale record di morti e infortuni. Neanche il Brasile, nel 2014, con misure di sicurezza fin troppo tremule, si è avvicinato alle cifre italiane: otto contro 24, tre volte in meno.

Uno stillicidio, una mattanza che i più all’epoca cercano di tenere sotto traccia, preoccupati di non rischiare di arrivare in ritardo con la consegna delle opere, di non far fallire la Sagra dell’Italico Pallone. Quei 24 uomini, dispiace dirlo, in certi momenti rappresentano un fastidio. La vergogna di allora non può impedire però oggi di rendere omaggio simbolicamente a undici di loro, a questa squadra di persone che volevano solo portare a casa il pane e vivere in serenità anche quel Mondiale che stavano contribuendo a rendere possibile.

GLI UNDICI FRA I DIMENTICATI
La nostra Nazionale di oggi, trent’anni dopo, gioca dunque con Domenico Rosone, 31 anni; Giovanni Carollo, 32; Gaetano Palmieri, 28; Serafino Tusa, 28; Antonio Cusumano, 23; Enzo Petroni, 20; Livio Colombo, 56; Bruno Valbonesi, 48; Michele Corsi, 57; Michelangelo Melodia, 49; Rodolfo Pasqualetti, 55. Le loro storie vanno oggi in campo per onorare anche le altre 13 che non sono molto diverse: racconti di speranze tradite dall’incuria e dallo sfregio alle regole. Storie di speranze tradite perché quasi nessuno ha pagato per queste tragedie. E anche per le altre, così come per tutti gli scempi di questo Mondiale degli sprechi, delle opere strapagate, demolite, mai utilizzate o, peggio, mai avviate. E che fino a pochi anni fa erano ancora nel conto della nostra spesa pubblica. Un monumento all’italica incapacità di organizzare cose come queste.

IL PRIMO SHOCK A PALERMO
Raccontare queste storie è anche un modo per presentare delle scuse a queste persone al posto di quelli che avrebbero dovuto farlo da tempo. Partiamo dal 30 agosto 1989 e di storie in un solo colpo da raccontare ce ne sono cinque. Prima di quel giorno c’erano già stati quattro morti in varie parti d’Italia ma quasi nessuno se n’era accorto. Il primo incidente c’era stato nel luglio 1988 a Genova: un giovane era precipitato da un’impalcatura allo stadio Luigi Ferraris. Due mesi dopo, nello stesso impianto, tre operai erano caduti da una gru: due erano morti sul colpo, uno si era salvato. A Bologna, a ottobre, era morto un operaio mentre montava i parapetti di una curva.

Ma è da Palermo in questo mercoledì di solleone, alle 10 del mattino, che arriva uno schiaffo per tutti, un duro richiamo. Il cantiere è quello dello stadio della Favorita. Un traliccio meccanico di quattro tonnellate, lungo 32 metri, crolla come se fosse cartapesta. Rosone, Carollo, Palmieri e Tusa muoiono subito, Cusumano il giorno dopo in ospedale. Tusa e Carollo sono ancorati al traliccio, finiscono a terra legati a funi che avrebbero dovuto essere assicurate altrove. Gli altri sono sotto il traliccio, solo Cusumano viene portato via ancora vivo ma con poche speranze. Un’ora prima tutti e cinque erano seduti sulle gradinate con un bicchiere di carta con un po’ di spumante. La bottiglia l’aveva aveva portata Serafino, appena diventato padre.

Anche i soccorsi vanno a rilento in questa Palermo dove niente sembra funzionare. Polizia e carabinieri arrivano quasi subito, la prima ambulanza mezzora dopo. Quello crollato è l’ultimo dei 20 tralicci di sostegno alla tribuna centrale. Due giorni dopo, a cantiere chiuso, verranno giù altre sette di quelle pesanti strutture. Ai funerali partecipano cinquemila persone ma fin dal giorno dopo il dibattito si sposta su un altro tema: «Evitare che Palermo perda la possibilità di ospitare il Mondiale». Seguono aspre polemiche sui ritardi nei lavori e sulla conseguente necessità di accelerare i ritmi delle operazioni. Oggi quelle cinque vittime sono ricordate con una targa allo stadio. Seminascosta.

SOTTOPAGATO E IN NERO
La sesta storia è quella di Enzo Pedroni, 20 anni, di Orbassano (Torino). Muore alle tre e mezzo di un martedì, il 19 settembre 1989. Siamo a Torino, nel quartiere della Continassa, dove si sta costruendo il Delle Alpi e dove oggi c’è lo Juventus Stadium. “Muore a 20 anni nel cantiere della fretta” è il titolo che apre la cronaca di Torino sulla Stampa. La dinamica è semplice: Enzo è dentro una fossa dove vengono appoggiate le grandi tubature per la rete fognaria dello stadio. A un certo punto viene travolto dalla terra e dai detriti destinati a coprire la tubatura, lui è lì per controllare le giunture fra i tubi. Di fatto viene sepolto. Gli ispettori del lavoro parlano subito di «violazioni delle misure di sicurezza». Enzo a casa aveva raccontato che quel lavoro era pericoloso, aveva fatto capire ai genitori e ai quattro fratelli di essere preoccupato. E dopo l’incidente spunteranno anche brutte storie di parti dello stipendio pagate in nero, di contributi non versati. Insomma, un concentrato del peggio dei subappalti dell’epoca e, purtroppo, ancora dei giorni nostri. Seguiranno scioperi, proteste, interrogazioni parlamentari. Inutilmente.

La storia numero sette è quella di Livio Colombo, 56 anni, di Monza. Si svolge allo stadio milanese di San Siro, domenica 8 ottobre 1989. Il prezzo della fretta diventa sempre più alto. Sono le quattro del mattino quando il nipote di Colombo, allarmato dai parenti che non lo hanno visto tornare a casa, trova il cadavere riverso dietro la cabina di guida. Secondo i primi accertamenti Livio è salito a sistemare il sistema idraulico di sollevamento del cassone che all’improvviso cede e lo travolge. Gli altri operai nel cantiere dello stadio non si accorgono di niente.

L’ottava storia è quella di Bruno Valbonesi, 48 anni, di Bagno di Romagna (Forlì), sposato, due figli. L’incidente è di lunedì 16 ottobre 1989, avviene a Rosta, nel Torinese, lungo il letto della Dora, dove sono in corso lavori di consolidamento del terreno per l’autostrada per il Frejus. Nel cantiere, legato ai Mondiali, ci sono otto fra trivelle e battipalo. La trivella scava buchi di 12 metri, la macchina battipalo li riempie di sabbia. Valbonesi è lì con una ditta in subappalto con un altro operaio che resterà ferito. Stanno agganciando un tubo quando una tramoggia vuota, del peso di tre quintali, precipita, travolge Valbonesi e sfiora il compagno. La ditta ha accelerato i ritmi di lavoro per non pagare una penale del dieci per cento in caso di ritardo. Un altro cantiere della fretta.

SCHIACCIATO DA UNA GRU
La storia numero nove è quella di Michele Corsi, 57 anni, di Roma. L’incidente avviene il 3 marzo 1990 all’Airterminal della stazione Ostiense, cantiere legato ai Mondiali, nella struttura dove oggi c’è Eataly. Sono da poco passate le 13. Corsi sta facendo una saldatura su un’impalcatura a dieci metri d’altezza quando viene schiacciato da una gru manovrata da un compagno di lavoro. Anche questo è un cantiere della fretta, dai ritmi accelerati.

La decima storia è quella di Michelangelo Melodia, 49 anni. Siamo all’aeroporto torinese di Caselle, venerdì 30 marzo. Michelangelo, arrivato da un anno a Torino da Gioiosa Ionica (Reggio Calabria), lavora come carpentiere nel cantiere del megaparcheggio multipiano. Muore, subito dopo la pausa pranzo, schiacciato da un cassero (una “forma” di legno per modellare le pareti in cemento) pesante tre quintali. Altri tre si salvano per un pelo. La ditta che impiega Michelangelo supera tutti i controlli, è in regola. I primi accertamenti parlano di un errore di “aggancio” del grande pannello motivato dal solito problema: la fretta.

I CANTIERI DELLA FRETTA
L’undicesima storia è quella di Rodolfo Pasqualetti, 55 anni, torinese. Muore domenica 3 giugno, a ridosso dell’inaugurazione del Mondiale, il venerdì successivo, l’8 giugno. Sta lavorando in uno dei cantieri della tangenziale, quando precipita da un viadotto nel “buco” fra le due carreggiate. Emerge una brutta storia di subappalti e di sicurezza carente, di mancanza di spallette di sicurezza. Il motivo? Il solito. La fretta, purtroppo una costante in queste undici brutte storie e in molte delle altre, in un quadro di appalti d’oro, di sprechi miliardari. Con la rivalutazione, oggi le cifre spese si avvicinerebbero agli otto miliardi di euro. Di gran lunga l’edizione più costosa, a parte quella del 2014 in Brasile. In Sudafrica nel 2010 se la sono cavata con due miliardi e mezzo, in Germania nel 2006 con 4 e mezzo.

Soldi buttati anche per opere inutili, non completate o demolite. Michel Platini, allora ct francese e solo “spettatore” perché eliminato nelle qualificazioni, raccontava prendendoci in giro: «Arrivando negli stadi per le partite si vedevano ancora operai che davano le ultime pennellate».

Trent’anni dopo i più rievocano la semifinale con l’Argentina, persa ai rigori dagli azzurri. Una cosa molto triste, sul piano sportivo. Ma l’altra faccia dell’insuccesso, quella rappresentata da queste storie, è ancora peggio. Molto peggio. —

twitter: @s_tamburini

© RIPRODUZIONE RISERVATA


 

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