«La mia famiglia fu fortunata: i vicini finirono nelle foibe»
Il racconto di Andrea, 72 anni, che da bimbo visse l’esodo: «In casa parlo il dialetto di Fiume per non dimenticare»
MANTOVA. Alla fine dell’intervento i suoi occhi tradivano la forte emozione nel ricordare la storia di tanti esuli fiumani, tra cui i componenti della sua famiglia: la mamma Linda, la nonna Caterina, la zia Renata emigrata in Australia e mai più rivista. Triste sorte di tanti italiani sradicati dalla loro terra.
Alla cerimonia per il Giorno del Ricordo ieri mattina (10 febbraio) a Porto Mantovano, Andrea Licon, 72 anni, dopo le parole pubbliche ha ricordato in disparte, quasi con pudore, le vicissitudini che gli hanno tramandato quei terribili giorni seguiti all’8 settembre 1943.
«Le donne erano terrorizzate, erano iniziati subito i rastrellamenti dei partigiani titini – inizia il racconto di Licon – loro si chiudevano in casa per il timore delle rappresaglie. E molte furono violentate». Il sindaco Massimo Salvarani l’ha incaricato, come consigliere comunale, di tracciare il Ricordo. Il minuto di silenzio è una fitta al cuore, scorrono le immagini di tanti drammi familiari, micro storie di sofferenza, simili alla sua.
«Mia nonna e mia madre fuggirono da Fiume dopo un periodo nel campo profughi di Scervignano – sono ancora parole del consigliere – arrivarono a Mantova nel 1948. Furono prima alloggiate nella caserma Montanara e Curtatone (l’ex sede del presidio militare, in largo 24 Maggio) e quindi nelle soffitte del palazzo del Mago, oggi adibito ad alloggi comunali. Questo fino a quando non furono pronti i palazzi di Valletta Valsecchi costruiti appositamente per noi profughi».
Adesso quegli edifici non ci sono più, abbattuti perché fatiscenti. È come se una testimonianza storica fosse stata rimossa. Custodita però nel cuore e nella memoria di quelli come Andrea: «In casa parlo ancora il dialetto fiumano imparato da bambino: è un modo per non dimenticare».
Quella corona appesa alla via dedicata ai Martiri delle Foibe suscita un brivido di raccapriccio. «Alcuni vicini di casa di mia nonna sparirono, si seppe dopo che erano stati infoibati. Qualche anno fa mi hanno accompagnato dove vennero recuperate decine di corpi, legati a due a due ai polsi col filo di ferro. Avevano una sola colpa, quella di essere italiani».