Neonati nel bunker di Kiev
La corsa per salvare i bimbi prematuri nell’ospedale della capitale ucraina scampato alle bombe: «Tre sono morti sotto terra senza ossigeno»
Qui la cosa più importante è essere tempestivi. I primi secondi, i primi minuti di vita, sono fondamentali per salvare vite, ma è diventato tutto molto complicato». La dottoressa Valeria Tyshkevich parla pianissimo, ha il sorriso garbato e rassicurante tipico dei reparti di maternità. Saluta con cortesia le infermiere, controlla il peso dei bambini, si assicura che nelle stanze la temperatura sia calda a sufficienza, «come quella del grembo materno – dice – calda, tranquilla, oscurata».
Sembrerebbe un normale ospedale se le luci nei corridoi non fossero spente, le tende chiuse, i piani in silenzio. Sono le nuove regole: quelle degli ospedali in tempo di guerra.
A Kiev l’esercito ucraino ha cominciato a smantellare alcuni check-point, le misure di sicurezza si sono un po’ allentate e alcune attività hanno cominciato a riaprire dopo la ritirata delle forze russe e il conseguente spostamento del conflitto a Est e a Sud. La memoria delle prime settimane di guerra, però, nel dipartimento di terapia intensiva del centro neonatale di Kiev è ancora vivida. Talmente tanto che si continua a vivere con le stesse cautele e le stesse procedure di qualche settimana fa, prima che l’offensiva russa nelle zone intorno alla capitale fosse respinta.
Valeria Tyshkevich è la responsabile della terapia intensiva neonatale da dieci anni, qui si prende cura dei bambini nati prematuramente. Neonati che pesano, in alcuni casi, appena un chilo e mezzo, che non riescono a respirare da soli e hanno bisogno di essere costantemente attaccati alle macchine.
I reparti di terapia intensiva neonatale servono a ridurre al minimo le procedure invasive e i movimenti dei bambini, ma quando è iniziata l’invasione i medici dell’ospedale si sono resi conto che non sarebbero stati in grado di fornire assistenza ai bambini nei reparti, così hanno organizzato una terapia intensiva nel rifugio antiaereo nel sottoscala, nonostante l’aria e l’umidità fossero inadatte ad ospitare bambini prematuri con gravi difficoltà respiratorie. Non c’è abbastanza ossigeno, non è impossibile fare radiografie, né fare esami.
In ventiquattro ore medici e infermieri hanno raccolto le attrezzature e ne hanno trasferita una parte sottoterra. Durante i primi giorni di guerra ogni volta che suonava la sirena, nei reparti ai piani si spegneva tutto: luce, ossigeni, ventilazione. I medici prendevano i bambini, scendevano le scale a piedi, rimanevano tre, quattro ore seduti nel rifugio. Ma non c’erano macchine a sufficienza per tutti i bambini, così in alcuni casi, i medici hanno dovuto ventilarli manualmente per farli respirare, «trasferirli su e giù è stato un disastro per i bambini, ci volevano ore per stabilizzarli di nuovo, con il risultato che invece aiutarli a fare progressi, peggioravamo le loro condizioni polmonari».
Da quando è iniziata la guerra la dottoressa Tyshkevich non ha mai riposato un solo giorno. Un terzo del personale, tra medici e infermieri, ha lasciato il Paese. Lei di questo non vuole parlare. Non giudica, non commenta, si limita a dire che chi è rimasto, come lei, i medici e gli infermieri che ha intorno, ha fatto dell’ospedale la nuova casa per non privare i pazienti delle cure.
Hanno stilato un programma di turnazione minima, chi lavora per dodici, quattordici ore di fila, deve potersi fermare, chiudersi in una stanza e riposare un po’, per poi tornare a lavorare. «Abbiamo tutti una famiglia - dice Tyshkevich -. Lasciarla a casa e trasferirsi qui in ospedale è stato difficile, ma in tempo di guerra un medico deve prima di tutto curare i malati».
Gli attacchi agli ospedali e ad altre strutture sanitarie sono stati e continuano ad essere una caratteristica importante, e gravissima, della guerra in Ucraina. L’ospedale per l’infanzia bombardato a Mariupol, quello psichiatrico colpito a Kharkiv, solo per citare due esempi sulle decine verificatisi in queste settimane.
Una valutazione preliminare dei crimini di guerra, condotta per conto di 45 membri dell’Osce, ha concluso che la Russia si stia impegnando in «un modello chiaro» di crimini di guerra, prendendo di mira scuole e luoghi di rifugio durante le sette settimane di combattimenti e ovviamente gli ospedali. A confermare la gravità e sottolineare quanto l’aggressione alle strutture sanitarie sia parte della strategia bellica di Putin sono i numeri: dall’inizio del conflitto, l’Organizzazione mondiale della sanità ha verificato 108 attacchi a cliniche, ospedali, personale medico, ambulanze, magazzini di stoccaggio delle forniture mediche, che hanno ucciso almeno 73 persone e in cui sono rimaste ferite altre 51 persone.
L’Oms ha inoltre riferito di aver consegnato 216 tonnellate di forniture e attrezzature mediche di emergenza in tutta l’Ucraina ma, dice il portavoce Bhanu Bhatnagar, poco più della metà delle forniture ha raggiunto le destinazioni previste. Significa che anche laddove le strutture sanitarie non sono state danneggiate o distrutte, le forze russe hanno ostacolato gli sforzi delle organizzazioni internazionali per fornire cure mediche alla popolazione assediata, violando il diritto umanitario internazionale.
Leonard Rubenstein, professore e direttore del Programma sui diritti umani e la salute nei conflitti della Bloomberg School of Public Health della Johns Hopkins University, ha scritto un libro dal titolo: «Perilous Medicine: The Struggle to Protect Health Care from the Violence of War» (Medicina rischiosa, la lotta per proteggere l’assistenza sanitaria dalla violenza della guerra) in cui spiega come le situazioni di conflitto influiscano gravemente sui sistemi sanitari e sulla salute pubblica in modi che non sono necessariamente intuitivi. Significa che la capacità a breve termine degli ospedali è sicuramente compromessa ma che lo resterà presumibilmente molto a lungo, come insegna, appunto, l’esempio siriano, conflitto nel quale le struttura sanitarie sono state per anni prese di mira e in cui la Russia è stata coinvolta in modo significativo. «Ma anche rispetto alla Siria, dice Rubenstein, dove gli attacchi sono stati orribili e sostenuti per molti, molti anni, la concentrazione di aggressioni a strutture e staff medico in Ucraina, è sorprendente».
Ad aggravare gli effetti sul lungo periodo influisce il dato che gli attacchi avvengano soprattutto in aree occupate o assediate dalle forze russe, quindi le strutture vengono danneggiate o distrutte proprio nelle aree in cui i bisogni della popolazione sono più acuti.
Ora che a Kiev la tensione si è allentata, i bambini del centro neonatale di Kiev sono tornati in reparto, ma il rifugio antiaereo è lì: due incubatrici, i lettini, le coperte, scorte d’acqua e benzina per i generatori di corrente, in caso di necessità. Cioè se il suono delle sirene tornasse ad avvertire della minaccia che arriva dal cielo.
«I bambini che hanno bisogno di tanto ossigeno non dovrebbero essere toccati», dice la dottoressa Valeria Tyshkevich, mentre prende le cartelle cliniche dei sei piccoli nelle culle e nelle incubatrici: «Il loro è un equilibrio tra la vita e la morte».
Il sorriso garbato e rassicurante si riempie di ombre.
Il ricordo ai primi giorni di guerra. Tre bambini prematuri, uno di 27 settimane, e i due più fragili, di 25 e 23. Le sirene costanti, la temperatura troppo bassa, l’elettricità che andava e veniva e la ventilazione manuale che non è bastata. Non sono sopravvissuti allo spostamento dai piani al rifugio antiaereo. Anche loro sono vittime di questa guerra.