Polveriera Pakistan
A guidare la sesta potenza nucleare al mondo è ora Shehbaz Sharif, leader dell’opposizione, dopo la caduta del filorusso Imran Khan. Imprenditore, non ostile all’Occidente, gradito a Washington. Ma dovrà tenere le redini di un Paese minacciato dal terrorismo interno e schiacciato dai debiti, ostaggio di Pechino.
Il Pakistan ha sfiduciato il filorusso Imran Khan ed eletto nuovo primo ministro il leader dell’opposizione Shehbaz Sharif. Una notizia che fa molto piacere a Washington e potrebbe un giorno non dispiacere neanche a Pechino, con cui Islamabad ha un debito gigantesco.
Dallo scorso 12 aprile, dunque, a guidare la sesta potenza nucleare al mondo è il fratello del più noto Nawaz Sharif: il tre volte premier pakistano che aveva progressivamente allontanato dal potere centrale la casta dei militari e condotto il Pakistan verso relazioni più stabili con la Turchia, l’Arabia Saudita e il Regno Unito. Nawaz era poi stato mandato via per accuse di riciclaggio, che nel 2018 lo hanno condotto addirittura in carcere.
Accuse che Nawaz condivide con il fratello minore, già arrestato nel settembre 2020 e trattenuto in carcere per sei mesi ma poi rilasciato su cauzione in attesa del processo (tuttora pendente). Non esattamente una saga alla Kennedy, per intendersi, in un Paese peraltro attraversato da tensioni legate tanto al radicalismo islamico quanto da rivendicazioni territoriali e conflitti aperti con l’India.
Dopo la breve parentesi amministrativa di Abbasi, il potere pakistano era infatti passato a Khan dal 2018, spinto dal partito nazionalista-populista Movimento per la Giustizia del Pakistan. Una volta insediato, Khan si era progressivamente avvicinato a Russia e Cina, in virtù delle decine di miliardi di dollari erogati a fondo perduto dalle due superpotenze verso Islamabad affinché il Paese islamico contenesse anzitutto la diffusione del terrorismo nella regione. Tanto Russia (leggi Caucaso) quanto Cina (leggi Xinjang) hanno infatti un serio problema con il fondamentalismo islamico, il cui fiume carsico rischia di erodere il dirigismo laico e statalista su cui entrambi i regimi si fondano.
Imran Khan era anche stato tra i primi capi di governo a schierarsi apertamente con Vladimir Putin e ancora il 23 febbraio 2022, alla vigilia dell’invasione in Ucraina, era a Mosca per discutere con il Cremlino della cooperazione energetica che intendeva ridare slancio al Pakistan Stream Gas Pipeline, il mega gasdotto promosso dalla Russia, e che attualmente si estende dalla città portuale di Karachi fino alla città di Kasur nel Punjab. Ovvero proprio la provincia da cui è cominciata la scalata al potere di Shehbaz Sharif, che ha guidato a lungo con la carica di governatore l’area più densamente popolata del Pakistan.
L’avvicinamento di Imram Khan alla Russia di Putin dopo decenni di gelo era coinciso con l’uccisione di Osama bin Laden da parte degli Usa il 2 maggio 2011 ad Abbottabad. Quello fu l’inizio di una lunga serie di attriti dei vari governi pachistani con la Casa Bianca, che ieri come oggi ritiene il potente servizio segreto pakistano (Isi) responsabile di aver «costruito a tavolino» i talebani afghani, e lo accusa di dare ospitalità a ricercati internazionali del calibro di Ayman al-Zawahiri, leader di al-Qaeda, così come a molti altri terroristi, signori della guerra e narcotrafficanti ricercati dagli Usa e legati a doppio filo con l’Afghanistan.
Dietro a tutto, ci sarebbe la compiacenza tanto dell’Isis come dell’esercito (Pak Fauj). Sono queste, di fatto, le due entità che detengono il vero potere in Pakistan; non a caso ogni volta che vengono toccati i loro giganteschi interessi il primo ministro perde il posto o muore: vedi Benazir Bhutto, il cui rientro in patria nel 2007 per correre alle elezioni fu funestato da un attentato - le cui responsabilità non vennero mai chiarite - che le costò la vita. Dall’indipendenza del Pakistan del 1947 a oggi, nessun premier è mai arrivato alla fine naturale del suo mandato, anche se Khan è il primo a essere caduto per un voto di sfiducia.
Il cambio della guardia odierno con un premier trasversale quale appare essere Shehbaz Sharif non è tuttavia un pessimo segnale per la casta militare: non solo egli è un uomo dell’establishment così come la famiglia di cui fa parte, ma è anche un imprenditore e un uomo di mondo, che ha frequentato a lungo Londra e conosce le relazioni internazionali forse meglio del fratello maggiore, il cui carattere duro gli ha alienato più volte le simpatie dei generali pachistani.
Di lui si dice che sia meno intransigente, e a dimostrarlo vi sarebbero le sue prime dichiarazioni in cui il neo premier ha lanciato segnali di distensione verso l’India in relazione al pericoloso conflitto a bassa intensità nella regione contestata del Kashmir. Un fatto che consentirebbe alle forze armate di concentrare altrove i propri sforzi e non sprecare risorse in una guerra senza possibili vincitori. Inoltre, le posizioni pubbliche appena prese lo vedrebbero niente affatto ostile all’Occidente, in particolare a Washington. Ed è proprio questo l’aspetto di Sharif che non piace alla Russia e soprattutto alla Cina, che era riuscita non senza difficoltà ad avvicinare alla propria sfera d’influenza Islamabad in funzione anti-indiana.
Non è un elemento di poco conto: il peso regionale del Pakistan con il suo esercito e i suoi missili balistici, è decisivo non meno della posizione strategica che il Paese può garantire per gli sbocchi commerciali di cui Pechino ha bisogno (dal Mare Arabico si raggiungono agilmente Africa ed Europa via Suez). Ecco perché durante il premierato di Imran Khan l’esposizione debitoria in materia energetica con la Cina era passata dai 7,2 miliardi di dollari del 2018 ai 15,8 miliardi del 2021, con una previsione che vede nel 2025 quasi 26 miliardi di debito (secondo fonti ministeriali pakistane).
Dollari che si sommano agli 11,3 miliardi da restituire al Club di Parigi (il gruppo informale di organizzazioni finanziarie dei 22 Paesi più ricchi del mondo); ai 33 da rifondere a donatori multilaterali, tra i quali Arabia Saudita e gli altri Stati del Golfo; ai 7,4 concessi dal Fondo monetario internazionale; infine, ai 12,5 miliardi in obbligazioni internazionali. Tutti debiti contratti per ragioni di approvigionamento energetico che, se sommati agli altri, restituiscono uno scenario dove Islamabad è esposta per 294 miliardi di dollari, che secondo gli economisti porteranno il debito al 220% del Pil entro un anno.
Il Pakistan, insomma, è una potenza nucleare schiacciata da debiti che non potrà mai ripagare e sempre più in mani cinesi, sebbene il suo sguardo sia rivolto altrove. Shehbaz Sharif, dunque, dovrà amministrare le relazioni internazionali senza propendere troppo per uno dei blocchi Occidente-Oriente; dovrà gestire un arduo rientro del debito nazionale accontentando Pechino; e trovare il modo di arginare il terrorismo interno dei vari Tehrik-i-Taliban Pakistan (Ttp), dell’Isis Khorasan (l’ultimo attacco alla moschea sciita di Peshawar del 4 marzo ha fatto quasi 60 morti) e di altre entità minori.