Falcone tradito, da vivo e da morto

In vita, lo avevano tradito più volte. Da morto, l’hanno distorto, manomesso, contraffatto. Lunedì 23 maggio saranno trascorsi trent’anni esatti dalla strage di Capaci, l’attentato che spense l’intelligenza e il coraggio di Giovanni Falcone, zittendone per sempre anche la cultura giuridica laica, liberale, garantista. Quel giorno gronderà la retorica, come purtroppo è sempre accaduto dal 1992. E ancora una volta ascolteremo tanti inutili discorsi, e commemorazioni trasformate nella vergognosa manipolazione del suo pensiero.

Perché questo è accaduto a Falcone: per trent’anni certi ambienti giudiziari - in particolare le correnti di sinistra della magistratura, che in vita l’avevano contestato e combattuto - sono riusciti a distorcere le sue idee e a renderle funzionali agli interessi corporativi e di casta. È un paradosso terribile: la mafia ha ucciso Falcone, e i suoi avversari sono riusciti ad appropriarsi della sua immagine e a modificarne il pensiero, che invece graffiava le ipocrisie della categoria e ne infrangeva i tabù. Quelle che seguono sono riflessioni poco o per nulla conosciute di Giovanni Falcone. Le parole del magistrato sono tratte, testualmente, da un libro del 1994 che purtroppo ormai è introvabile: Giovanni Falcone - Interventi e proposte, 1982-1992, edito da Sansoni in collaborazione con la Fondazione Giovanni e Francesca Falcone. Il saggio raccoglie discorsi, relazioni, interventi. In quelle 350 pagine, Panorama ha cercato i pensieri più «politicamente scorretti» di Falcone, quelli più lontani dal conformismo dell’ambiente in cui operava: nel disastro che oggi travolge la giustizia italiana sono attuali come non mai. E in quest’era di falsità sono il migliore omaggio alla sua memoria.

Sì alla separazione delle carriere

Nella sinistra giudiziaria, ma anche in quella politica, c’è chi da trent’anni continua a proporre un Falcone nemico della separazione delle carriere tra magistrati dell’accusa e giudicanti. Ma non c’è nulla di più falso. Ecco che cosa scrive il magistrato nel 1988, un anno prima dell’entrata in vigore della riforma del Codice di procedura: «Si tratta di prendere atto, responsabilmente, che le attitudini e i compiti specifici del pubblico ministero, richiesti dal nuovo modello di processo penale, comportano una sua specifica formazione professionale, che solo in parte coincide con quella del giudice e che anzi, in punti qualificanti, ne diverge nettamente».

E nel 1990 aggiunge: «La regolamentazione della carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste: investigatore a tutti gli effetti il pm, arbitro della controversia il giudice».

E pochi giorni prima di morire, nel maggio 1992, quando Tangentopoli era scoppiata da tre mesi, conclude così: «Il pm è sì un organo giudiziario, ma non essendo titolare della potestà di giudicare non può dirsi nemmeno giudice in senso tecnico (…). Intendo dire che il pm deve avere un tipo di regolamentazione ordinamentale differente rispetto a quella del giudice».

I pm non possono essere «irresponsabili»

Non basta. Il tema della «separazione», per Falcone, andrebbe affrontato «accantonando lo spauracchio della dipendenza del pm dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che vengono puntualmente sbandierati quando si parla di differenziazione delle carriere». Il magistrato nel 1988 sottolinea che «i valori di autonomia e indipendenza non equivalgono a sostanziale irresponsabilità» e che «la funzionalità degli uffici di procura e della politica giudiziaria complessiva non può essere lasciata alla mercè delle scelte, prive di adeguati controlli, dei capi degli uffici giudiziari (cioè dei procuratori, ndr.) senza alcuna possibilità istituzionale di intervento».

Lo strapotere delle correnti e la crisi del Csm

Falcone è un critico ante-litteram dello strapotere delle correnti in cui si divide la corporazione: «Se l’autonomia della magistratura è in crisi» scrive nel 1988 «dipende anche dalla crisi che investe da tempo l’Associazione nazionale magistrati, organismo diretto alla tutela di interessi corporativi», dal fatto che «le correnti si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio superiore della magistratura». Nelle correnti, aggiunge, «la caccia al voto del singolo magistrato e la difesa corporativa della categoria sono diventate le attività più significative; e al di là di mere declamazioni di principio, nei fatti il dibattito ideologico è scaduto a livelli intollerabili».

Il disastro delle carriere automatiche

Già nel 1991, Falcone critica duramente il crollo di professionalità della categoria e ne trova una causa rilevante negli «automatismi di carriera», che «insieme alla pretesa di considerare il magistrato una sorta di superuomo infallibile e incensurabile solo perché ha vinto un concorso sono causa della grave situazione in cui versa la magistratura. L’inefficienza dei controlli sulla professionalità, cui dovrebbe provvedere il Csm, ha prodotto un livellamento dei magistrati verso il basso».

L’obbligatorietà dell’azione penale

«I confini tra obbligatorietà dell’azione penale e discrezionalità del pubblico ministero sono assolutamente labili e la discrezionalità è un dato fisiologico» scrive nel 1990 Falcone. La sua idea propende per il modello anglosassone: «Una giustizia efficace e democratica», sostiene, «significa anche razionalizzare e coordinare l’attività del pm, finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’obbligatorietà dell’azione penale, e dalla mancanza di efficaci controlli sulla sua attività». E infatti scrive che negli Stati Uniti «la giustizia è più rapida, efficiente e attenta ai diritti della difesa» e che questo dipende anche dallo «strumento fondamentale della non obbligatorietà dell’azione penale». E conclude: «Fino a quando in Italia vi saranno rigide normative sulla obbligatorietà, il problema della repressione giudiziaria del crimine organizzato non avrà fatto un passo avanti».

La gestione dei pentiti di mafia

Falcone, che pure è stato il principale sostenitore dell’utilità investigativa dei collaboratori di giustizia, avverte che il pm deve sempre «provare grande diffidenza nei loro confronti» e critica «l’intimismo investigativo», cioè l’eccesso di colleganza tra magistrato e pentito di mafia. E comunque la sua prima regola era: «Servono i riscontri». Perché nessun pentito contiene in sé la garanzia di essere la voce della verità.