Cottarelli: “I rincari arriveranno al 10%, ora aiuti mirati ai ceti deboli”
L’economista: «I salari vanno sostenuti, ma aumentarli può peggiorare la situazione. Gli interventi del governo devono essere concentrati dove ce n’è più bisogno»
«Non esistono soluzioni facili» al rebus dell’inflazione, avverte Carlo Cottarelli, economista, ex Fondo monetario internazionale. «Nei numeri non vediamo segnali di rallentamento. Anzi: non mi stupirei se, andando avanti, sfiorasse la doppia cifra. Credo che, oltre alle banche centrali, qualcosa lo possa fare il governo. Bene ha fatto a calmierare bollette e carburanti, ma dovrebbe mirare i propri interventi per dare sollievo alla parte più povera della popolazione».
Professor Cottarelli, anche negli Anni 80 l’Italia ha sperimentato una corsa dei prezzi. Ma il fatto che l’inflazione sia legata all’energia non rende più ardua la cura?
«Non siamo più di fronte a un’inflazione che riguarda solo i prodotti energetici e alimentari. Anche l’inflazione di base, che prescinde da queste due componenti, sta crescendo».
Di quanto?
«Sui 12 mesi è ancora relativamente bassa, al 3,8% in Italia e al 4,6% in Eurozona. Ma se annualizziamo l’andamento degli ultimi tre mesi notiamo che è all’8,3% in Italia e al 9,6% nell’Eurozona. È un po’ come quando uno guida l’auto a 100 all’ora, sa che tra un ora avrà fatto 100 chilometri. Ecco, stiamo accelerando».
È un errore dunque pensare che l’inflazione non sia partita dalla domanda?
«È una cattiva interpretazione molto diffusa. L’aumento del prezzo delle materie prime non è dovuto a un embargo sul petrolio come negli Anni 70, ma a un aumento della domanda globale rispetto all’offerta. Un fenomeno indotto stampando moneta per risollevare l’economia dopo il covid. Si è ripresa, ma con due effetti collaterali: l’aumento di prezzi e il razionamento di alcuni prodotti».
E ora le banche centrali hanno le armi giuste?
«Le armi ci sono, ma comportano conseguenze negative».
Allude a una possibile recessione che si andrebbe ad aggiungere al carovita?
«Quando si arriva a questi livelli di inflazione, in genere bisogna aumentare i tassi parecchio ma questo causa una frenata dell’economia. È quanto accaduto più di 40 anni fa, dopo il secondo shock petrolifero. La Federal Reserve aumentò i tassi e ci fu una recessione globale. Ora penso che tra inflazione e recessione, sceglieranno la prima. E se le banche centrali saranno prudenti il carovita andrà avanti».
Può durare a lungo?
«Negli Anni 70 e 80 proseguì per anni. Questa volta la Bce, in Europa, ha anche un’ulteriore complicazione».
Quale?
«Se la Fed negli Stati Uniti aumenta i tassi, a nessuno viene in mente che in Texas qualcuno possa pensare di uscire dall’area del dollaro. Da noi invece, un rialzo dei saggi farebbe salire lo spread, che segnala un maggior rischio legato al Paese. In Italia abbiamo perfino un partito che si chiama Italexit. Nei sondaggi, poi, c’è sempre quel 25% di italiani che dice che si stava meglio quando si stava peggio».
Ricomincerebbe il dibattito “euro sì, euro no”?
«Questo rappresenta una complicazione nella gestione della politica monetaria. E si capisce così perché la Bce prosegua piano, per tentativi».
Per ora, sulla gestione dello spread, è stata piuttosto sul vago, non trova?
«Ma se lo scudo, quando verrà attuato, non sarà particolarmente forte, rischia di diventare un boomerang. Non è facile fare qualcosa di decisivo: Draghi ci riuscì con il suo famoso “Whatever it takes” (“a ogni costo”, ndr), che comportava interventi illimitati se il Paese sotto pressione concordava un programma di aggiustamento con il Mes. Cosa oggi difficilmente proponibile. Dovranno inventarsi qualcosa».
Chi ha torto tra Confindustria, che vuole evitare aumenti salariali per bloccare la spirale dei prezzi, e i sindacati che vogliono buste paga più pesanti per salvaguardare quanto possibile il potere d’acquisto di chi lavora?
«In realtà nessuno dei due. Se i salari aumentano le imprese scaricano i costi aumentando i prezzi. Al tempo stesso c’è un problema serio legato al taglio del potere d’acquisto. Appare convincente la soluzione citata dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle considerazioni finali laddove ritiene utili interventi più mirati ai redditi bassi».
Lei cosa si immagina?
«Le manovre messe in campo finora per calmierare le bollette hanno agevolato tutti. Così come il taglio delle accise sui carburanti, che favorisce anche chi viaggia in Ferrari. Se i soldi sono pochi, però, vanno concentrati sui chi ne ha bisogno. Si potrebbe per esempio sussidiare le bollette solo fino a un certo livello di consumo ma non oltre. Oppure prorogare, almeno per i prossimi 12 mesi, il bonus da 200 euro, che è diretto ai meno abbienti».
L’Europa cosa può fare?
«Il tetto al prezzo del gas potrebbe aiutare. Draghi fa bene a spingere su questo, anche se bisognerebbe capire cosa succederebbe. Putin, per dire, potrebbe chiudere ulteriormente le forniture. Ancora peggiori le conseguenze di un tetto al prezzo del petrolio: le petroliere se ne andrebbero altrove».
Con l’inflazione vincono i debitori. È così anche per lo Stato?
«Ci guadagna in due modi: nell’immediato registra più entrate di Iva, anche se sono state già spese. In secondo luogo c’è un’erosione del valore dei titoli di Stato da inflazione imprevista. Solo per quest’anno vale 35 miliardi, si abbassa il rapporto tra debito e Pil. Paga chi ha investito in titoli di Stato a tasso fisso».
Non c’è il rischio che tutto questo si tramuti in una rivolta popolare?
«Nell’immediato no. Le persone sono poco sensibili all’aumento dell’inflazione, impiegano tempo a rendersene conto. Se si annunciasse loro un taglio di stipendio dell’8% avremmo le piazze piene, non c’è dubbio. Tutti ricordano il prelievo di Amato sui conti correnti e la polemica che ne seguì. Era dello 0,6%: l’inflazione all’8% equivale a una patrimoniale molto più importante. Eppure nessuno reagisce. In economia si chiama illusione monetaria. La gente pensa di avere soldi. Ma, appunto, s’illude».