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Genealogia di un disastro

Genealogia di un disastro

Partiamo da una riflessione: siamo noi ad avere eletto questi dilettanti allo sbaraglio

L’unica cosa su cui riflettere è che li abbiamo eletti noi. Adesso non vi concentrate per favore sul noi, non rispondete no io no, sarete stati voi. È un noi metaforico, è un soggetto collettivo che indica gli elettori: tutti, anche quelli che non sono andati a votare e hanno lasciato che a decidere fossero gli altri. La classe politica più scadente della storia repubblicana, questa comunità di miracolati scappati di casa, questi dilettanti allo sbaraglio che alle cinque del pomeriggio del giorno in cui cade il governo chiamano mamma al paese per chiedere consiglio, si fanno un selfie dal bagno dal Senato, consultano l’astrologa: sono stati votati ed eletti dagli italiani. E no, non è disprezzo dell’elettorato dire avete – abbiamo – votato la più incredibile leva politica a memoria d’uomo, la peggiore: è un’assunzione di responsabilità e un invito a esercitare la memoria più a lungo dei pesci rossi, perché la campagna elettorale è già in corso ed è un attimo dimenticarsi, ricominciare da capo.

Per esempio. Ricordiamo la ragione per cui Mario Draghi non fu votato al Quirinale dalle forze politiche che sostenevano il suo governo? La ragione esibita, diciamo così, non quella occulta. Si disse che non poteva lasciare Palazzo Chigi: era necessario, anzi indispensabile in quel ruolo. Non era vero, evidentemente. Cinque mesi dopo lo hanno lasciato andare con entusiasmo. La ragione occulta, per contro, era che Draghi non sarebbe stato «governabile» dai partiti: non amato, ingombrante estraneo, non li amava. Un sentimento reciproco. Non si può piacere a tutti e anzi non si deve, ma per accanirti contro «il banchiere della troika» devi almeno saper leggere un bilancio, redigere una legge in italiano e in una forma che renda i suoi meccanismi chiari, far funzionare ciò per cui ti batti. Allora, ad armi pari, puoi discutere e persino vincere. In caso contrario puoi solo sfasciare.

Difatti. Quel che rimane agli atti dei due giorni appena trascorsi è che nessuno di quelli che hanno fatto cadere il governo ci ha messo la faccia, il nome, il voto. Non entro, entro ma non voto, mi affaccio solo con la testa, metto il piede nella soglia con le mani in tasca, però. Ci sono ma non mi contate, fate come se non mi aveste visto. Gli appigli procedurali con cui Lega Forza Italia e Movimento cinque stelle hanno fatto mancare la fiducia politica ma non il quorum, hanno fatto cadere il governo senza impedire che avesse la maggioranza dei voti sono giochetti che andateli a spiegare, poi, alla famosa base elettorale, ai tassisti agli esercenti alle partite Iva, ai pagati in nero, ai ragazzi coi «contrattini volanti». Ma certo, l’importante era poter dire non sono stato io, è stato l’altro: anzi, guardate bene, è stato Lui. È stato Lui che se ne è andato, si è eliminato da solo: per arroganza, per sicumera, avete sentito il discorso? Ci ha umiliati, ha «calpestato la nostra dignità» ha detto Giuseppe Conte del passaggio sui superbonus, quello in cui Draghi ha spiegato che ci sono migliaia di imprese che aspettano i crediti perché i meccanismi di cessione non sono chiari, sono stati mal scritti e bisogna correggerli. Vero? Falso? Non importa, non è di questo che si discute: non è del merito, è del tono. Dunque, alla fine, è stata una reazione emotiva – diciamo così. A dar credito alle cronache, infatti, il lavorìo dei contiani del Pd aveva prodotto mercoledì pomeriggio il risultato di un compromesso possibile: il democristianissimo appoggio esterno, che nostalgia dei telefoni a gettoni. Senonché quella replica, accidenti: quell’aria da professore non si poteva sopportare. Ma era già irrilevante, a quell’ora, il parere della pattuglia di Conte al Senato. Sveltissimo nel cono d’ombra grillino avanzava Salvini, sospinto da Berlusconi. Umiliato anche lui, Salvini, dalla reprimenda sui continui «ricatti e ultimatum», la parabola dei precedenti e parecchio altro ancora. Eccitato, invece, Berlusconi dalla prospettiva di candidarsi al più presto: meglio a settembre che in primavera, che il tempo più avanza e più corre veloce. Eppure Confalonieri e Gianni Letta glielo avevano spiegato, guarda che così spacchi Forza Italia e fai un favore alla Meloni, ma niente: Churchill per mezz’ora, Silvio B. è tornato Caimano, l’imperatore di Roma che brucia. Mezza giornata e la profezia si è avverata: Gelmini e Brunetta sono usciti dal partito, Gelmini in direzione Calenda. (C’è una sindrome ministeriale in atto, da registrare - di Stendhal o di Stoccolma, dipende da dove si guardi. Di Maio è stato il primo a lasciare per amor di Draghi, a ben vedere l’inizio di tutto. Le strategie si giudicano dall’esito, se il proposito era di rafforzare il governo non è andata benissimo. Salvini e Giorgetti già non si parlano. Vedremo presto, vedremo gli altri).

Grande la solitudine di Enrico Letta, safety car di governi di emergenza, responsabile più dei responsabili, la cui auto rimane al momento ferma ai box: il campo largo è sparito dalle mappe. Invita i suoi ad avere «occhi da tigre», il segretario Pd, a credere nella vittoria prossima ventura ma con qualcuno bisognerà pur allearsi e Berlusconi è ormai inservibile, la maggioranza Ursula impraticabile, restano Renzi Calenda Bersani e tutto l’arcobaleno rosso-rosa fino al malva, a sinistra, ma non basta. Mattarella che può fare se non indire elezioni, di fronte all’ennesimo fallimento di una classe politica già bocciata come inadeguata in partenza, a inizio missione. E Meloni che altro se non aspettare il calcio d’inizio della partita, se non sognare il gol a porta vuota.

Resta, da ultimo, da annotare la straordinaria preveggenza di ministri e portavoce russi. La singolare coincidenza che a far cadere il governo siano state le forze filo russe («È un caso?», domanda Calenda. «Non è un caso», fa eco Di Maio). In effetti il passaggio più duro, quello su cui Draghi ha più insistito nel suo discorso è stato quello contro l’aggressione russa in Ucraina. Ma c’è una buona contropartita, informa l’Eni, perché già ieri Gazprom ha fornito all’Italia 36 milioni di metri cubi di gas, il 71,4 per cento in più del giorno precedente. Alla fine fra i condizionatori e la pace, fra i condizionatori e il governo: meglio i condizionatori, che fa caldo.

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