Il Donbass, quelle vite sepolte nei bunker. “Quanto è vicino il nemico?”
A Soledar tra i civili che aspettano l’arrivo dell’armata russa. «Dormiamo di giorno perché la notte sparano da entrambi i lati»
Soledar è l’ultimo avamposto ucraino prima di arrivare alla città di Bakhmut da cui dista solo quindici chilometri. È un piccolo paese di circa diecimila abitanti, conosciuto per la più importante e antica miniera di sale del Paese, attrazione turistica nazionale: al suo interno vi sono gallerie scavate a trecento metri di profondità dove si trovano un campo da calcio, una sala concerti e persino un centro di speleoterapia dove venivano trattate malattie respiratorie. La miniera è stata bombardata e distrutta alla fine del mese di maggio da un missile Tochka sparato dai russi, le gallerie sarebbero potute essere utilizzate dall’esercito ucraino per lo stoccaggio di armi. Il paese si sviluppa su una collina e dall’inizio della guerra ha subito diversi attacchi. Attraversandolo si nota distruzione ovunque, edifici sventrati – un sanatorio, un palazzo amministrativo, la casa della cultura –, per strada segni di bombe a grappolo ed enormi crateri di bombe pieni d’acqua. Il luogo è deserto, anche se c’è ancora un piccolo supermercato e una tabaccheria che lavorano per poche ore al giorno. Si sente di continuo l’alternarsi dei colpi dell’artiglieria ucraina nascosta a ovest alle pendici della collina e di quella dei russi che si trovano a est dove si combatte verso Yakovlivka, all’altezza dell’autostrada che collega Bakhmut a Lysychansk e Severodonetsk, il cui controllo è di fondamentale importanza per entrambi gli schieramenti.
Passiamo in auto per il centro distrutto, non c’è quasi nessuno in giro. Incontriamo un bambino - ha uno sguardo profondo, una polo scolorita di due taglie più grandi, con le maniche slabbrate e sporche –, fa l’elemosina in strada, ci chiede dei soldi. D’improvviso l’artiglieria ucraina comincia a sparare dei colpi di Grad in serie – il suono è molto vicino, si vedono le scie dei razzi –, il bambino prende il pezzo di pane che gli sporgiamo e scappa via spaventato dai colpi. Ci spostiamo, andiamo nella parte est della collina, superiamo la chiesa del paese e andiamo verso dei garage nella periferia oltre i quali l’asfalto delle strade e il cemento delle case si dissolvono in campi di grano e distese d’erba. Si continua a sparare da una parte e dall’altra, mentre entriamo in un viottolo dissestato, un furgone di volontari, con persone da evacuare a bordo, ci passa a fianco in senso contrario ad alta velocità. I garage sono tutti chiusi, vediamo solo un uomo che brandendo un bastone fa volare dei colombi da dei tralicci costruiti su due casette di lamiera – ci dice che ne alleva una trentina e che viene ogni giorno a dargli da mangiare e da bere, non ha più paura delle bombe, è abituato e non vuole morire in uno scantinato al buio –, lo lasciamo seduto su una pietra tra l’erba a contemplare i suoi colombi librarsi in cielo mentre tutto intorno rimbomba e tuona.
Ci addentriamo tra i vicoli degli edifici in stile sovietico costruiti in mattoni, ci fermiamo a conoscere delle persone che vivono in uno scantinato, scendiamo delle lunghe scale, è inaspettatamente illuminato ma sprovvisto di gas e acqua. Un ragazzo, seduto su un letto, gioca offline sul suo computer, altre persone riposano, ci raccontano che di notte non si dorme per le bombe e quindi lo si fa di giorno. Una signora molto agitata, che alterna momenti di euforia e risa ad altri di estrema tristezza e pianti - racconta che la guerra l’ha sconvolta e che riesce a dormire solo se prende dei farmaci – ci invita a tavola e ci fa mangiare del borsch, una zuppa tipica ucraina. Le diciamo che è molto buona, lei è contenta.
Chiedono informazioni su cosa succede nelle altre città, vogliono sapere dove sono arrivati i russi –non c’è connessione telefonica a Soledar, queste persone vivono isolate –, raccontiamo della situazione attuale di Kramatorsk, Bakhmut, Sloviansk, Siversk, tutte sotto attacco russo, annuiscono in maniera distaccata come ad accettare un inesorabile destino. Poi chiediamo se possa servire qualcosa a tutti loro dal supermercato, qualcosa che non si riesce a procurare: la signora ci dice che ha bisogno di sapone per lavare i vestiti, che non può acquistare perché troppo caro, tutti gli altri vorrebbero delle sigarette. Adiamo a comprarne, di ritorno la signora ci abbraccia, vorrebbe scendessimo ancora dalla macchina per offrirci dell’altra zuppa, ma è tardi, fa caldo – abbiamo le maglie fradicie per il calore e il peso del giubbotto antiproiettile –, stare fermi in strada è molto pericoloso. Li salutiamo e ci avviamo verso Kramatorsk.