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Dibba, il vendicatore è tornato

Dibba, il vendicatore è tornato

Dall’autoesilio alla voglia di tornare capopopolo. Il sogno è la corsa solitaria contro tutti ma l’accoglienza del presidente 5S è gelida

Il ritorno del Vendicatore (o Giustiziere) è una storia di attese che l’umanità si racconta (grosso modo) dalla notte dei tempi. Non per nulla, l’antropologo e storico delle religioni comparate Joseph Campbell, il grande studioso dello storytelling dei miti – al punto da essere stato in qualche modo l’ispiratore della trama di Star Wars di George Lucas –, lo inseriva fra gli archetipi del viaggio degli eroi leggendari. E, difatti, qui stiamo parlando, per così dire, di uno che risulta tale agli occhi di diversi nostri connazionali, soprattutto nel passato glorioso e arrembante del Movimento 5 Stelle che prometteva la palingenesi rivoluzionaria del sistema politico e la bonifica senza sconti delle caste (prima di divenirne parte integrante, e fallimentare). Alessandro Di Battista è, “geopoliticamente”, l’«eroe dei due mondi»: barricadero in Italia e descamisado in Sudamerica (specie nel beneamato Venezuela chavista-maduriano), da cui l’appellativo onorifico di «Che Guevara di Roma Nord». E, quindi, militante itinerante e globe-trotter della “causa altermondialista” antiamericana, dall’Iran degli ayatollah alla Russia «profonda», dalla cui vastità sconfinata ci invita a comprendere le “buone” ragioni putiniane rendendoci edotti degli immancabili torti dell’Occidente.

A ben guardare, poi, un personaggio un po’ scisso e lacerato, irrisolto e in cerca di autore (e di partito) Di Battista lo è anche esistenzialpoliticamente. Con quel suo sdegnato chiamarsi fuori dai 5 Stelle – accusati, ancora pochi giorni fa, di troppi accomodamenti con Mario Draghi (da lui descritto con la stessa ferocia espressionistico-spartachista di un banchiere effigiato da Georg Grosz) – e, al medesimo tempo, con la voglia matta di rientrare. E di tornare a gettarsi nella pugna per risollevare le sorti – fattesi, nel frattempo, tutt’altro che magnifiche e progressive – di quell’informe forma-partito di cui è stato il frontman acchiappavoti e acchiappaclic per antonomasia, e che sotto una qualche forma di sua guida potrebbe tornare a un movimentismo senza se e senza ma. Sebbene senza alcun contributo diretto da parte sua, le condizioni che «Dibba» invocava per la cessazione dell’autoesilio si sono avverate: il draghicidio (che ha visto un ruolo determinante dei falchi pentastellati) è avvenuto e, sulla sua scorta, l’alleanza con l’odiato Pd si è fortemente (e forse, stavolta, davvero irreversibilmente) incrinata. E le dure repliche della storia sembrano obbligare il Movimento a ritornare sui passi di quello che fu uno dei dogmi del grillismo (e dei suoi portafortuna elettorali): la corsa solitaria contro tutto e tutti, disciplina politico-sportiva in cui il comiziante Di Battista eccelle, tanto in carne e ossa che sui social.

Tutto congiura, pertanto, affinché scenda di nuovo in campo per candidarsi. E i suoi diktat per “sciogliere” la riserva – racchiusi nella dichiarazione «Io non sono disposto a tutto pur di tornare in Parlamento. Dipende da che spazio di autonomia c’è all’interno» – hanno tutta l’aria di un messaggio indirizzato a Giuseppe Conte per sondare la propria futura agibilità e gli spazi di manovra realmente disponibili. Già, perché l’accoglienza nei suoi confronti da parte del presidente pentastellato appare piuttosto gelidina (come si legge nell’intervista pubblicata ieri su La Stampa); e in quella notte permanente dei lunghi coltelli che è diventato il crepuscolo del Movimento nella versione di Conte tutti diffidano di tutti. L’ex premier si è consacrato anima e corpo a una strategia comunicativa per un verso recriminatoria proprio nei confronti del Pd (fino al paradosso assoluto – una specialità grillina – di imputargli una surrealistica responsabilità nella caduta dell’esecutivo) e, per l’altro, vittimistica, intrisa di quella che Robert Hughes avrebbe chiamato la «cultura del piagnisteo» (che arriva sino alla lamentazione per essere stati «bullizzati» nel corso dell’ultima esperienza di governo). Insomma, di tutto, di più.

Nell’odierno profluvio di agende (e agendine), viene allora da domandarsi se l’«Agenda Dibba» coincida con il documento sociale e ambientale il cui mancato recepimento viene rivendicato, a ogni piè sospinto, dai contiani quale giustificazione dello strappo (ovvero, per dirla tonda, della political assassination del premier che aveva riportato l’Italia al centro della scena europea e internazionale). Se, come pare, l’«Agenda Conte», a dispetto dei roboanti proclami di rilancio della giustizia sociale e della tutela ambientale, si rivela sostanzialmente una difesa a oltranza dell’inefficiente reddito di cittadinanza e del superbonus, allora l’«Agenda Dibba» dispone del plusvalore di aggiungerci anche il brivido del ripristino degli slogan antisistema e antagonistici. Musica per le orecchie del «M5Si salvi chi può» alle prese con una crisi di panico da ricollocazione di molti dei suoi dirigenti e notabili, tanto più significativa quanto più (un tempo...) vigeva l’anatema nei confronti del professionismo della politica. Una visione che rimane salda in Beppe Grillo (per quanto possa apparire un po’ lunare accostare il Garante e proprietario del simbolo a qualunque espressione di fermezza) sotto forma del divieto di terzo mandato, che ha gettato nello sconforto i big dell’inner circle contiano (da Paola Taverna a Vito Crimi, sino al presidente della Camera Roberto Fico) in cerca di un altro giro di giostra. E, dunque, sperando di rinvigorire i consensi volatilizzati, e mentre fuori imperversano le ipotesi di «pazzalleanze» degli altri schieramenti, è scattata in parecchi l’aspettativa messianica e salvifica. En attendant Dibba-Godot: archiviato il Sacro Blog, si ripiega sul «dibba-raggismo», il Sacro Graal protestatario e (iper)populista. E, tuttavia, la deriva verso l’irrilevanza di fatto di una forza che, nel 2018, era stata votata da più di un terzo degli italiani appare come un dato acquisito e non più reversibile. E su questo non c’è dibattistismo che tenga...

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