Pievani: «Hack? Una divulgatrice social prima dell’arrivo nelle nostre vite del web»
foto da Quotidiani locali
TRIESTE. Nessuno può tenere il conto dei giorni che gli restano, tanto meno a novant’anni. Perciò con la saggezza dell’età, esattamente dieci anni fa, Margherita Hack aveva detto “no grazie” a un’operazione al cuore che avrebbe potuto salvarla, ma presentava anche dei rischi. Poi, con la sua sagace autoironia, aveva perfino osato una battuta: «Così faccio risparmiare pure la Asl». Molto probabilmente, riflette il filosofo Telmo Pievani, se avesse dovuto lamentarsi di qualcosa la signora delle stelle l'avrebbe fatto alla Piero Angela: «Morire è una grande scocciatura», aveva detto il grande divulgatore in una delle sue ultime interviste. Perché non si può più continuare ancora a cercare, a tentare di carpire i segreti del cosmo.
«Margherita possedeva una curiosità bambinesca e inesauribile, mista all’inquietudine che non la faceva mai essere soddisfatta dei risultati ottenuti, perché c’era sempre qualche altra domanda a cui rispondere: è questa la matrice dei grandi scienziati», commenta Pievani, che insieme all’astrofisica Francesca Matteucci, in un dialogo moderato da Caterina Boccato dell’Inaf, la ricorderà martedì, alle 18, al Teatro Miela. L’incontro si intitola “Le scienze esatte non sono esatte ma ci vanno vicino. Un tributo a Margherita Hack”, organizzato dall’Università di Trieste nell’ambito dell’iniziativa Caffè corretto scienza.
Come ha conosciuto Margherita Hack?
«Era il 2003, la prima edizione del festival della Scienza di Genova. Fin da allora Margherita venne da noi come ospite e da subito fu acclamata come una star. Il pubblico la adorava, quando c’era lei non riuscivamo mai a trovare una sala che contenesse tutti coloro che volevano ascoltarla».
Che impressione le ha fatto la prima volta?
«Di un personaggio capace di calamitare l’attenzione affettuosissima del pubblico. Era dotata di un’empatia unica, di una straordinaria capacità di sintesi, di una grande semplicità. Riusciva a spiegare concetti molto complessi sintetizzandoli in maniera estremamente efficace. Un caso unico di divulgatrice social prima dei social, con una capacità di condivisione formidabile».
Com’è diventata una sorta di pop star della scienza?
«Quando si raggiungono i suoi livelli è perché si possiede un mix di caratteristiche unico: la presenza, scapigliata e sbarazzina, la grande preparazione scientifica, l’autorevolezza e la grande affabilità, il suo essere alla mano, diretta, sagace e polemica al punto giusto».
Quali caratteristiche vi accomunano?
«Da lei ho imparato l’importanza di mettersi nei panni degli interlocutori quando si comunica la scienza: entrava in profonda sintonia con chi la stava ascoltando, non come gli accademici convinti di “spiegare agli incolti”. E poi la laicità: era una donna laica da tutti i punti di vista, e ti spiegava minuziosamente perché non aveva bisogno di un principio trascendente per appianare i misteri dell’universo. Infine, la sua continua attenzione critica: era implacabile nei confronti dei movimenti antiscientifici o pseudoscientifici, perché chi fa scienza segue un metodo rigoroso, in cui l’immaginazione conta, ma deve partire da evidenze razionali».
Il sottotitolo dell’incontro dedicato a Margherita è “le scienze esatte non sono esatte ma ci vanno vicino”. Lei come lo spiegherebbe?
«Quando a Margherita veniva fatta una domanda su una questione che la scienza non poteva affrontare al momento era molto onesta. Diceva “non lo sappiamo”. Perché la scienza è una continua sfida all’ignoto, un’avventura senza fine della conoscenza. Ma questa incertezza, che è parte del processo scientifico, non significa che per spiegare il mondo dobbiamo rivolgerci agli oroscopi o alla religione, ma che servono nuove domande».
Come si può lavorare affinché le persone si fidino della scienza?
«Credo sia necessario far vedere che la scienza è un’impresa fallibile, che non su tutte le questioni abbiamo conoscenze così robuste. La scienza va vista come un processo e non come un prodotto. Conta la trasparenza, nulla va sottaciuto. E va sottolineato il lato umano e sociale del processo: le storie che stanno dietro alle imprese scientifiche. Infine non bisogna mai mettersi nei panni del tuttologo, bisogna parlare solo di ciò che si conosce».
Com’è cambiata la divulgazione scientifica rispetto ai tempi pionieristici di Margherita?
«È cambiata moltissimo con l’arrivo del web. Margherita era analogica nel senso più bello del termine. Per lei, come per me, la presenza fisica è sempre stata importantissima. Certo ci sono bravi divulgatori anche nei social, ma la comunicazione tende a essere troppo narcisistica. A prevalere dovrebbe essere sempre il contenuto. Invece sui social molti tendono a comunicare prima se stessi: la logica dei like è incompatibile con la scienza».
E come si spiega, a fronte di sforzi sempre maggiori per la divulgazione, questo fiorire di antiscientismo?
«Le posizioni radicali appartengono comunque a una minoranza, lo scetticismo invece è molto più diffuso. L’antiscientismo ha molte frecce nel suo arco: è un modo di pensare consolatorio, perché consente di spiegare tutto. Ma non bisogna fare l’errore di ritenere sprovveduto chi fabbrica fake news: meglio smontare e non smentire. Perché spesso si tratta di persone non prive di cultura, ma che presumono di sapere troppo. E conoscono bene i meccanismi della comunicazione: usano il vittimismo e il complottismo, tecniche che il nostro cervello adora».