Forza Italia, il partito che è ri-partito

Dopo aver letto il suo necrologio, lo spumeggiante Mark Twain mandò un telegramma dalle Bermuda: «Spiacente di deludervi, ma la notizia della mia morte è fortemente esagerata». Dopo le ultime tornate, il giudizioso Antonio Tajani invia un messaggio dalla sua Fiuggi: «Chi ci dava in calo aveva fatto analisi sbagliate». Forza Italia stupisce. Da moribonda a rediviva. Grazie al mite segretario: antitesi dell’incontenibile fondatore, Silvio Berlusconi. La riscossa è cominciata in terra d’Abruzzo, con un abbondante 13 per cento. Leghisti doppiati. Com’era già accaduto, del resto, nella precedente disfatta sarda. E adesso s’attendono altre buone nuove. Regionali, Amministrative ed Europee potrebbero sancire il definitivo sorpasso sul Carroccio. Nel nome di quel centrismo d’un colpo rifiorito. Trascorsa la stagione degli esuberanti, è tempo di concilianti. Il settantenne Tajani, dunque. Tre decadi sulla breccia, senza strepitii. Il gran sottovalutato. La voga impone sveltezza. Lui è un passista del potere. Ai modi stentorei preferisce la conciliazione. I bisticci sono rari e fugaci. L’ultimo è con Matteo Salvini, sulla rielezione di Vladimir Putin. Il leader leghista simpatizza con il popolo russo, che tributa l’ennesimo plebiscito al presidente. Il segretario azzurro, però, precisa: «La politica estera la fa il ministro degli Esteri». Ossia, lui. Non è solo un’incomprensione, ma anche voler marcare il territorio. «Puntiamo a superare il dieci per cento alle europee e il venti per cento alle prossime politiche» dice Tajani. Evenienza che potrebbe scombussolare la coalizione: dopo Fratelli d’Italia ci sarebbe Forza Italia. E, solo a seguire, la Lega.

Nell’attesa del verdetto di Bruxelles, i sondaggi danno i contendenti appaiati attorno all’otto per cento. Mentre però la Lega si arrocca sul sovranismo, gli azzurri spalancano le porte per «aggregare l’area fra Meloni e Schlein, che è molto vasta e che cerca rappresentanza». Quindi, accordi politici con leader e leaderini di buona volontà. Se il campo largo giallorosso diventa un’aiuola, il centrodestra assomiglia a una prateria. Ad aprile, per esempio, ci sono le Regionali in Basilicata. Si ricandida il forzista Vito Bardi. Complici le pantomime degli sfidanti, sarà appoggiato persino dagli apolidi terzisti: Italia Viva e Azione. E lo stesso schema potrebbe ripetersi in Piemonte. Anche qui c’è un azzurro che corre per il bis: Alberto Cirio.

Insomma, gli egotici Matteo Renzi e Carlo Calenda scalpitavano per l’imminente annessione. L’ex premier, in particolare. Che ha sempre provato a presentarsi come l’unico degno erede del Cavaliere: il solo dotato del necessario quid. Lo scorso settembre, a dispetto dei miseri risultati, svillaneggiava: «Con Berlusconi c’era Forza Italia, con Tajani c’è Forse Italia». Invece adesso Matteo d’Arabia, assieme al Churchill dei Parioli, si precipita a Canossa. Eppure dopo la morte di Berlusconi, lo scorso giugno, in pochi ci avrebbero scommesso. I più benevoli parlavano di un effetto emotivo destinato a scomparire nel giro di qualche mese. Poi, il tracollo. Alle europee, vaticinavano, l’ex partitone del Cavaliere rischiava di sprofondare. Preludio della dissoluzione. Anche in Transatlantico non si discuteva del come, ma solo del quando. Fine imminente. Settimana più, settimana meno. Per i litigiosi reduci era già tempo di accasarsi altrove. I ronzulliani, dal nome della spavalda Licia, speravano nella Lega. I nostalgici meditavano il passaggio in Azione, al seguito delle due ex ministre berlusconiane, Maria Carfagna e Maria Stella Gelmini. I discliplinati speravano nella benevolenza della premier, Giorgia Meloni, per venire accolti da Fratelli d’Italia. Fuggi fuggi generale.

Forza Italia, al contrario, sembra rinascere. Puntando anche sull’usato sicuro, personificato dal segretario, in vista della decisiva corsa per Bruxelles. La prima a rifarsi sotto è Renata Polverini, ex presidente in Lazio e deputata. Dopo la fugace sbandata calendiana, torna tra gli azzurri perfino Letizia Moratti, ex sindaco Milano. Correrà da capolista. Il suo predecessore, Gabriele Albertini, attende invece le prossime Politiche. Alle Europee saranno poi candidati due bossiani. Uno è Marco Reguzzoni, già delfino del Senatur e presidente del gruppo della Lega alla Camera. L’altro è Roberto Cota, governatore piemontese fino al 2014. Ma si guarda oltre. Nel 2025, per esempio, si vota in Veneto. Il doge leghista, Luca Zaia, forse non potrà ripresentarsi. E Tajani spinge per un fedelissimo: Flavio Tosi, ex sindaco di Verona, già bandiera leghista. Chiamato dal Cavaliere nel giugno 2022, eletto alla Camera, è lo scatenato coordinatore regionale del partito. Gli chiediamo dunque dell’inimmaginabile resurrezione azzurra: «S’è passati da un partito leggero e partito vero» spiega Tosi. «Congressi, tessere, sezioni. Mentre gli altri si sganciano dal territorio, noi torniamo alla tradizione».

Tosi snocciola qualche numero: «In Veneto cresciamo da quattrocento a settemila iscritti. E sono arrivati decine di amministratori locali, dai consiglieri ai sindaci. E dopo le europee, sorpassata la Lega, saremo ancora più attrattivi». Tanto da arrivare a rivendicare la guida della Regione? «Se diventiamo il secondo partito della coalizione, tutto si può ridiscutere...». Tajani stravede per Tosi. Lui ricambia: «È il leader indiscusso. Emblema di affidabilità e concretezza. Prima prevaleva la logica amicale. Ora conta solo la meritocrazia: voti e abnegazione sul territorio. Vogliamo poi parlare del rapporto tra Tajani e Meloni?». Buono? «Eccellente!». La riconquista del Nord è il pallino tajaneo. A partire dalla Lombardia, dove tutto nacque. Coordinatore regionale è il quarantenne Alessandro Sorte. Che ci offre subito un esemplificativo aneddoto personale sull’inaspettato. Non spiegate a lui gli scherzi del destino. S’è maritato con la capogruppo del Pd a Treviglio, Matilde Tura, arcigna ambientalista conosciuta mentre era assessore regionale ai Trasporti. Filano d’amore e d’accordo.

Lei, sfegatata tendenza Elly. Lui, che s’illumina davanti all’assennato Antonio, cui tributa la massima onorificenza lombarda: «È l’unico romano che lavora più di un bergamasco». Sorte, però, non dimentica i tempi cupi. «Dopo la morte del presidente eravamo sotto un treno. Si respirava aria da Mission impossible» ammette. «Adesso in Lombardia siamo passati da ottocento a diciassettemila iscritti. E sono soprattutto giovani, i più europeisti. Al Pirellone, poi, i consiglieri regionali sono aumentati da sei a nove. Abbiamo rientri di peso come Albertini e Moratti. Siamo diventati un’alternativa al fanatismo della sinistra e un’argine all’estrema destra, coltivando l’eredità lasciata dal presidente».

Appunto. Come si sopravvive senza Cavaliere? Sorte ricorre a une delle amate metafore sportive: «Siamo passati dalle regole del calcio a quelle del basket. Prima c’era un fuoriclasse che vinceva le partite da solo. Oggi servono gli schemi e l’aiuto di tutti i giocatori. Forza Italia ora è un partito normale, con congressi aperti. Perché cercare un nuovo Berlusconi? Non esisterà mai. Meglio perfezionare il gioco di squadra». Rivive quindi il motto arboriano: più siamo meglio stiamo. «Vediamo la luce in fondo al tunnel, anzi un bagliore: siamo l’unico partito del centrodestra che cresce, attrattivo sia per i leghisti che i centristi. I sovranisti lasciano scoperti alcuni filoni? Guardino a noi».

E il terzo polo? «Scrivono sui manifesti “L’Italia sul serio” e poi bisticciano come Sandra e Raimondo. Dopo un po’ la gente si stufa, dài». Beh pure dentro Forza Italia l’ambiente non era certo disteso. «Ma adesso siamo troppo impegnati per litigare» sorvola il coordinatore lombardo. Si lavora perfino al prossimo sindaco di Milano. «Il nome non può che uscire da noi...». C’è già qualcuno in lizza? «Certo. Ma non posso dire altro». Un civico? «Lo schema della coalizione per le grandi città, ormai, è quello». Con alterne fortune, a dire il vero. Comunque sia, Forza Italia c’è. Anche la famiglia sembra straordinariamente bendisposta. Tanto da far ipotizzare nuovamente la discesa in campo di Pier Silvio Berlusconi. Che nega, ma rilancia: «Penso che il ruolo di Forza Italia nel portare avanti il pensiero di mio padre, liberale e moderato, sia fondamentale». Di Silvio ce ne sarà sempre uno solo. Le precedenti investiture, d’altronde, si sono rivelate fallimentari: da Angelino Alfano a Giovanni Toti. Tajani, invece, non ha mai scalpitato, ci mancherebbe. Sempre un passo indietro, fino a quando non è stato costretto a farne due avanti. La rincorsa comincia quasi sei anni fa. Luglio 2018: il Cavaliere lo nomina vice presidente del partito. Lui è ancora alla guida del Parlamento europeo. Panorama lo intervista a Bruxelles, nell’emiciclo di vetro e acciaio di Place du Luxembourg. Lui, speranzoso, detta il suo manifesto: «Sono tutti ossessionati dal consenso immediato. Non c’è alcuna visione: non dico di lungo, ma nemmeno di medio periodo». Ed eccoci qui, sei anni dopo. L’eterno Tajani gongola. Ma solo un pochino. Per i morigerati, talvolta, le vie della politica sono infinite.