Diagnosi, chemioterapia, tumore e amputazione, erano termini che sentivo solo in tv, navigando tra episodi di Grey's Anatomy e pubblicità progresso. Gli ospedali, poi, erano questioni di qualche ora, un gesso, una visita a un parente acciaccato o una montagna di scartoffie da compilare. Sciocchezze, insomma. Il "reparto di oncologia" era un'etichetta come un'altra, montata nei corridoi, a indicare un mondo a chilometri di distanza. È così. La sofferenza, noi sani, l'abbiamo allontanata a migliaia di anni luce, ce ne siamo quasi dimenticati. Se ci ammaliamo è per un raffreddore, se non ci alziamo dal letto è per un colpo d'aria o magari una sbronza. Loro no. La sofferenza, i ragazzi malati, ce l'hanno come perenne compagna di viaggio. Conoscere i Blivers è stato come guardare il mondo a testa in giù, per la prima volta.I sorrisi erano gli stessi, le espressioni anche, persino l'età. Tra loro e me, tra me e loro non c'era alcuna differenza. Io lo sapevo, però, di essere quella fortunata, e sapevo di essere l'unica. Ero io quella con tutti i pezzi al posto giusto; ero io che non avevo perso mesi di asolescenza tra camere e lettini di ospedale; ero io a non dovermi portare addosso quello scomodo fastidio. Io ero l'altra faccia della medaglia, l'altra parte del mondo. E toccava a me, per la prima volta, indossare i panni del "diverso", in un piccolo universo di normalità. Non è stato facile, all'inizio. Ma non sono servite parole, nemmeno spiegazioni. Quegli sguardi non posso dimenticarli, così sorridenti, accoglienti, capaci in un attimo di riempire quello strano spazio che solo noi sani riusciamo a creare con tutti quelli che, in qualche modo, ci sono dissimili.