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Addio a Rutger Hauer di «Blade Runner». Qui la nostra ultima intervista

L'attore olandese è morto dopo una breve malattia all'età di 75 anni. Qui, l'ultima intervista realizzata da Vanity Fair in occasione del Lucca Film Festival di quest'anno, dove era stato ospite d'onore
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Se n’è andato dopo una breve malattia all’età di 75 anni Rutger Hauer, il famoso replicante di Blade Runner. Lo ha reso noto il suo agente a funerali già avvenuti. Hauer, nato nei Paesi Bassi, era stato anche il seducente Etienne Navarre, al fianco di Michelle Pfeiffer in Ladyhawke (1985). In Italia aveva lavorato con Ermanno Olmi nel film La leggenda del santo bevitore

Qui di seguito, l’ultima intervista realizzata da Vanity Fair in occasione del Lucca Film Festival di quest’anno, dove era stato ospite dell’evento Tears in rain per celebrare il film Blade Runner.


«Ci siamo sempre detti: stiamo insieme finché lo vogliamo, il giorno che non ci andasse più, ognuno per la sua strada. Nemmeno per un secondo ho dubitato che non fosse lei l’amore della mia vita».

Rutger Hauer e sua moglie Ineke ten Kate hanno appena celebrato 49 anni insieme (Si conoscono dal 1968 anche se si sono sposati nel 1985). «Bisogna avere una grande fortuna per incontrare qualcuno che non smetti di amare per così tanto tempo. La mia vita si basa su due “gambe”: il mio lavoro e l’amore che mia moglie e io proviamo l’uno per l’altra».

In questi giorni è a casa, in Olanda. Ma come ogni attore molto tempo lo ha trascorso altrove, sui set.  «È come vivere tante vite diverse: la sua la mia, la nostra quando siamo insieme, e quella che viviamo quando siamo lontani l’uno dall’altra».

A un migliaio di chilometri da casa, Hauer lo sarà di nuovo ad aprile per partecipare al Lucca Film Festival dove, oltre a ritirare il premio alla carriera, è anche il protagonista dell’evento Tears in rain, che celebra il film Blade Runner, ambientato a Los Angeles nell’allora futuristico 2019.

A differenza di molti suoi colleghi che finiscono per odiare il personaggio con il quale il pubblico li identifica, Hauer è sinceramente felice di poter parlare e riparlare di un film che «ha avuto una vita così lunga. Trovo che per un attore sia meraviglioso».

Nel corso degli anni ha raccontato più e più volte di come sul set non abbia avuto modo di scambiare neppure una parola con il suo antagonista Harrison Ford («Sia chiaro, non ho mai detto di aver avuto un brutto rapporto con lui. Però so che per Ford fu un set difficile. Con Ridley Scott non scattò mai la scintilla, cosa che invece capitò a me. Ci trovammo subito, mi disse: “Fai tutto quello che ritieni giusto per rendere il tuo personaggio più umano degli umani”»).

E ha spiegato che fu sua l’idea della caccia finale al posto del combattimento corpo a corpo («Guardami, ti sembro Bruce Lee?», disse a Ridley Scott per convincerlo a cambiare la scena), così come quella di aggiungere la colomba bianca che il suo personaggio fa volare via al momento della morte. E che fu sempre lui a mettere mano al monologo finale, uno dei più leggendari della storia del cinema. Hauer lo ridusse drasticamente  rispetto alla versione originale «troppo prolissa», aggiungendo in compenso le famose «lacrime nella pioggia».

L’attore è impegnatissimo e non solo a celebrare il passato. «Sto lavorando a tre progetti ma è troppo presto per scendere in dettagli. E, poi, ho cose mie. Personali». Segue un silenzio cui segue un borbottio fatto di sillabe mozzicate, cui segue e chiude un «non ho intenzione di parlarne».

Non è che per caso uno di questi progetti è il western con Franco Nero?

Ride.

Ho detto qualcosa di buffo?

«Il fatto è che quando ho parlato con questo produttore,  gli avevo detto che per ora non era il caso di citare il mio nome… Magari succederà, ma non è ancora detto. Non so niente di questo film, eccetto che dovrebbe essere, appunto, un western».

A quanto pare, però, lei ha una parte in un altro western, I Fratelli Sisters, che in Italia esce il 2 maggio.

«Alcuni miei fan mi hanno scritto: “Non riusciamo a vederti. Ma ci sei davvero nel film?”».

E la risposta è?

«Il regista voleva assolutamente che recitassi una piccola parte, diceva che per lui era fondamentale. La verità è che la storia funziona benissimo anche senza questa sorte di secondo finale. Fin dall’inizio ho avuto il presentimento che l’avrebbe tagliato, lo scoprirò appena finisco di vedere il link sul mio computer. Ma è un ottimo film, consiglio di andarlo a vedere».

Quest’anno festeggia il cinquantesimo anniversario di carriera. Il suo primo ruolo, dopo un inizio come attore teatrale, fu in una serie Tv olandese intitolata Floris.

«Mi presero perché sapevo cavalcare – avevo cominciato fin da bambino – e tirare di spada perché avevo preso lezioni di scherma. Quanto alla recitazione, pensai: “Quanto potrà essere difficile?”. Sono stato fortunato: il regista fu abbastanza bravo da gestire nel modo migliore quel poco che riuscii a combinare. Quando ho cominciato non sapevo se avrei continuato a fare questo mestiere. Nel corso della mia carriera molte cose sono cambiate e io stesso ho dovuto prendere strade diverse. Dopo la Tv, sono passato al cinema e ho lavorato per un po’ anche in Germania, poi sono arrivati i film americani.  E poi è arrivato The Hitcher – La lunga strada della paura e lì, a cambiare, sono stato io, il mio atteggiamento».

Ovvero?

«Ho deciso di rendermi la vita più facile, di aprirmi, di mettere da parte le mie idee preconcette. Fino ad allora ero stato pieno di rabbia, in lotta perenne: con la sceneggiatura, con il mio modo di recitare, con la stampa, con me stesso. Ha presente i teenager che dicono di no a tutto? Solo che io non ero più un ragazzo. Durante quel film sono cresciuto, ho svoltato».

Da dove arrivava quella rabbia?

«Mettiamola così: non avrei mai pensato di fare l’attore, ero convinto che fosse un mestiere per gente stupida. E sei hai successo è difficile non cedere alla seduzione di sentirsi ripetere quanto sei bravo e tenere i piedi per terra. Io, però, vengo da un mondo diverso, per me è facile tenere le distanze. Ogni volta, mi concentro sulla storia e cerco di capire come posso dare il mio contributo, non ne faccio una questione di ego. Mi sono divertito a interpretare tutti i miei personaggi. Anche nei film più brutti. Del resto per fare buoni film devi farne anche di pessimi».

Parliamo di un altro anniversario: sono trent’anni dall’uscita del film La leggenda del santo bevitore di Ermanno Olmi. Lei non era non scelta più scontata per quel personaggio. 

«Mi aveva  visto in Italia in occasione di un’intervista per The Hitcher e aveva detto ai suoi collaboratori che ero l’attore che cercava. Ci incontrammo in un ristorante a Parigi.  Il mio italiano faceva schifo, o lo fa tuttora, il suo inglese pure. Ci facemmo aiutare da un interprete. Mi disse: “È un film d’azione” e mi posò la mano sulla faccia. Non c’era bisogno d’altro, capii che cosa intendeva».

Sempre nel 1989 uscì un altro film che in molti ricordano: Furia cieca. Lei interpretava un non vedente  che fa a pezzi una banda di criminali a colpi di spada.

«Feci un mese di training per imparare a muovermi come un cieco. Il mio insegnante, un non vedente, mi disse: “Non farci sembrare stupidi”. Mi bendò gli occhi e mi fece camminare per le strade di Los Angeles. Un’esperienza claustrofobica».

Nel 2007 ha pubblicato la sua autobiografia. Titolo: All Those Moments: Stories of Heroes, Villains, Replicants, and Blade Runners.

«Mi ci vollero due anni per scriverla e altri due per trovare un editore».

Proviamo ad aggiungere qualche capitolo? Per esempio, che ricordi ha del film di Dario Argento, Dracula 3D, che uscì nel 2012?

«Mi è piaciuto lavorare con lui, adoro fare film in Italia ma non so se sia valsa la pena di fare quel film e devo ammettere di non averlo mai guardato la versione 3D. Ma posso dire una cosa?».

Certo.

«Uno degli aspetti del mio lavoro di cui vado più orgoglioso è che ho collaborato spesso con registi al loro primo film. Non m’interessa se è rischioso, può essere il paradiso oppure l’infermo, ma non m’importa».

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