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Dacia Maraini: «Le donne devono essere unite e solidali»

La scrittrice, punto di riferimento per il movimento femminista italiano, si augura di «avere messo qualche piccolo seme nella terra della consapevolezza femminile». «Se alcuni di questi semi crescessero e diventassero alberi», aggiunge, «ne sarei felice»

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 39 di Vanity Fair, in edicola fino al 30 settembre

«Il viaggio è un processo di conoscenza. Entro in mondi nuovi per capire, per creare nuovi legami, per confrontarmi». Nascere figlia di un grande viaggiatore ha le sue implicazioni genetiche. Dacia Maraini ha trascorso i primi anni della sua vita in Giappone dove il padre Fosco, famoso etnologo toscano di origini ticinesi, e la madre Topazia Alliata, pittrice palermitana appartenente a un antico casato, decisero di trasferirsi e dove, dal 1943 al 1945, vennero internati in un campo di concentramento per essersi rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò dopo il patto Roma-Berlino-Tokyo. Da allora, non ha mai smesso di muoversi quasi obbedendo inconsciamente al motto paterno «tutto quello che succede nel mondo mi riguarda».
«L’educazione in famiglia con un padre etnologo mi ha di certo aiutata a pensare in termini di mondo e non di piccola realtà locale», mi dice dalla sua casa romana dove ha trascorso anche i mesi del lockdown. Persino oggi, che di anni ne ha 83 e dopo avere scritto per tutta la vita, romanzi, saggi, articoli, poesie e opere teatrali – vinse anche un premio Strega nel 1999 per i racconti Buio e un Campiello, nel 1990, per La lunga vita di Marianna Ucrìa –, ed essere stata un punto di riferimento per il movimento femminista italiano, viaggiare continua a essere uno dei suoi grandi amori: «Durante la segregazione dovuta alla pandemia mi sono mancati molto i viaggi. Dovevo andare in Spagna per l’uscita di due miei libri in spagnolo, ma abbiamo dovuto rimandare. Dovevo andare in Austria, in Inghilterra, negli Stati Uniti per un invito di cinque università, ma anche lì ho dovuto rimandare all’anno prossimo».
Tra la fine degli anni Sessanta a l’inizio dei Settanta, Pier Paolo Pasolini, uno degli amici più cari conosciuto grazie al compagno Alberto Moravia, le chiese di accompagnarlo in alcuni viaggi di esplorazione «lavorativa»: insieme con Moravia, Ninetto Davoli e altri, sono stati in Africa almeno una decina di volte, specialmente nello Yemen e in Mali, dove portarono con loro anche Maria Callas.

Maraini, che cosa pensò la prima volta che Pasolini le chiese di accompagnarlo?
«Eravamo molto amici, ci vedevamo a Roma quasi tutti i giorni, quindi non mi è sembrato strano che proponesse di fare un viaggio insieme».

Come era viaggiare con lui?
«Si è subito dimostrato un ottimo compagno di viaggio. Non si lamentava mai delle scomodità, delle attese, degli incidenti, e ne abbiamo avuti tanti. Noi evitavamo gli itinerari turistici e quindi capitava che dovessimo dormire in tenda, oppure in luoghi inaspettati come una missione o una caserma. Non protestava per il cibo diverso, per le difficoltà quotidiane. E in questo andavamo molto d’accordo. Anche io ero abituata ai viaggi difficili e alle continue sorprese di un andare per vie non previste».

Non le faceva uno strano effetto essere spesso l’unica donna della compagnia?
«No, era una cosa normale perché Pier Paolo non faceva distinzioni e non era misogino neanche un po’».

Qual era lo spirito di quei viaggi?
«Aveva qualcosa di antropologico e di cinematografico. Ci interessavamo ai popoli che incontravamo, cercavamo di capirli, ma nello stesso tempo Pier Paolo guardava il tutto con occhio da regista ed era affascinato dalle luci africane e dai corpi magri e poetici di un popolo che cammina sempre e ha un sottile senso dell’umorismo».

Un aneddoto africano.
«Ci sarebbero da raccontare tanti particolari, alcuni buffi e altri dolorosi. Come quella volta che, disperati per la mancanza di cibo fresco, dopo tre giorni che ci nutrivamo di scatolette, abbiamo deciso di comprare delle uova di gallina che ci offriva un ragazzo molto convincente. Le abbiamo pagate molto, ma ne valeva la pena. Però quando le abbiamo aperte la sera per fare una bella frittata ci siamo accorti che erano piene di sabbia. I tuorli erano stati succhiati con un ago. Una fregatura che ci ha fatto ridere ma anche arrabbiare. Il ragazzino naturalmente era sparito, non l’abbiamo più ritrovato».

Pier Paolo Pasolini non era misogino neanche un po'

Come era la vostra quotidianità di viaggiatori? Chi era il più avventuroso?
«Il più spericolato era senz’altro Pier Paolo che non aveva paura di nulla e spesso ce lo portava in albergo la polizia perché si era avventurato in luoghi considerati pericolosi per gli stranieri. Ma lui se la rideva. Quando trovava dei ragazzini che giocavano a calcio, si metteva a giocare con loro. La mattina di solito ero io a svegliarmi per prima. Era l’ansia di ripartire che mi buttava giù dal letto. Correvo a svegliare Pier Paolo che la mattina tendeva a dormire perché la sera faceva tardi. Mi apriva la porta con un sorriso addormentato. Mi sussurrava “buongiorno” con gli occhi ancora chiusi, ma non mi ha mai detto una parola di rimprovero. Era un uomo dolcissimo e affettuoso. Nei lunghi tragitti in Land Rover parlavamo di tutto, come capitava: delle notizie che arrivavano via radio, dei progetti per il futuro. Spesso anche di letteratura. Alberto recitava a memoria le poesie di Baudelaire. Pier Paolo gli rispondeva con delle poesie in friulano. C’era un’atmosfera allegra e solidale. Non ho mai sentito rancori, scontri, malumori. Era veramente un trio ben affiatato. A volte si univano a noi altri, come Ninetto, oppure i tecnici della fotografia, o il produttore. Allora il clima si faceva più serio, più professionale. Ma non ho mai assistito a scontri o liti, anche quando eravamo tutti stanchi e sfiancati dai lunghi, faticosi viaggi sulle strade non asfaltate e piene di buche».

Viaggiavate solo per lavoro o andavate anche in vacanza?
«Alcuni viaggi sono stati di lavoro e con noi venivano i tecnici. Altri di piacere, e di conoscenza, come ho detto. Ma non erano mai veramente vacanze. Pier Paolo prendeva appunti per i suoi film, Alberto faceva in modo di incontrarsi con scrittori del luogo, io interrogavo le donne, mi mettevo in mezzo a loro mentre lavavano i panni o portavano a spasso le pecore, o tagliavano la legna. Le donne in genere in Africa fanno i lavori pesanti».

Le capita mai di sognare quegli anni?
«In sogno mi tornano spesso dei momenti felici dei nostri viaggi. Gli incontri con certi meravigliosi animali selvatici come le giraffe che si nascondevano dietro gli alberi per spiarci, la gioia di un picnic in riva a un fiume maestoso, l’incontro con degli africani che a Pier Paolo ricordavano i sottoproletari romani nei tempi che lui considerava beati per la loro innocenza, prima della corruzione borghese e consumistica».

Roma è il mio luogo del cuore

Ama viaggiare da sola?
«L’ho fatto tante volte, e ora che i miei amati compagni sono morti mi trovo sempre più spesso a farlo, ma sinceramente preferisco viaggiare in compagnia. Anche se viaggiare da sola è un modo di dire, perché sono sola in albergo e negli spostamenti perché, quando arrivo, trovo sempre qualcuno da conoscere e con cui confrontarmi».

C’è una parte del viaggio che la preoccupa di più?
«Prima di partire sono presa da paure di inadeguatezza. Sarò capace di affrontare il diverso con generosità e spregiudicatezza? Saprò parlare agli studenti, visto che la maggior parte degli inviti all’estero arrivano dalle università o dalle biblioteche? Sarò capace di parlare bene l’inglese, di esprimere chiaramente i miei pensieri?».

Ha un luogo del cuore?
«Roma e il mio piccolo appartamento sui tetti. Mi piace viaggiare, ma anche tornare fra i miei libri e le mie tisane».

Lei è stata una delle poche donne italiane il cui lavoro letterario è stato giustamente apprezzato e riconosciuto. Questo come la fa sentire? Pensa che oggi il clima stia cambiando?
«Ma guardi che il riconoscimento mi è arrivato tardi e ancora oggi, quando c’è di mezzo l’autorevolezza, vengo messa da parte come donna. Comunque certo qualcosa sta cambiando e molto è dovuto a quella grande rivoluzione pacifica che è stato il femminismo, che ha permesso il cambiamento di leggi di famiglia discriminatorie che risalivano alle leggi romane. Sia i Romani che i Greci, grandi popoli creativi e innovativi, sono stati purtroppo misogini e discriminatori. Hanno teorizzato con insistenza l’inferiorità femminile, tanto che perfino la Chiesa ha assorbito quelle teorie. Solo Cristo aveva capito la profonda ingiustizia del rapporto fra ricchi e poveri e fra uomini e donne. Non a caso l’hanno crocifisso».

Ho letto che uno dei suoi sogni sarebbe avere «una giornata libera da richieste». Se potesse averla, come amerebbe trascorrerla?
«Le richieste riguardano soprattutto la lettura di manoscritti e la scrittura di presentazioni. Me ne arrivano quasi tre o quattro alla settimana e sono tutti giovani o non più giovani al primo libro e mi dicono “se lei non mi fa la prefazione l’editore non me lo pubblica”, per cui mi sento in dovere di aiutarli. Quando non lo faccio mi sento in colpa. Naturalmente sempre tutto gratis. Lo considero volontariato culturale, ma è faticoso. Anche perché leggo a fondo gli scritti, prendo appunti, poi scrivo. Ma mi porta via il tempo della mia scrittura».

Quale eredità le piacerebbe lasciare?
«Vorrei avere messo qualche piccolo seme nella terra della consapevolezza femminile. Se alcuni di questi semi crescessero e diventassero alberi, ne sarei felice».

Molte donne la considerano una guida. Questo come la fa sentire? Ha una raccomandazione per loro?
«Mi fa piacere, anche se non ci penso mai, a meno che non me lo facciano notare. Se posso dare un suggerimento, chiederei per favore solidarietà, e ancora solidarietà. Le donne da sole non possono cambiare niente. Hanno bisogno di essere unite e solidali».

Nella foto: Dacia Maraini accanto a Pier Paolo Pasolini, scrittore e regista, in Africa nel 1968, mentre legge un opuscolo
sul set del documentario Appunti per un’Orestiade africana. L’ultimo libro di Maraini П Trio (Rizzoli, pagg. 112, џ 16).

LEGGI ANCHE

Le donne italiane, un numero speciale di «Vanity Fair» diretto da Francesco Vezzoli

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