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Happy Days compie 50 anni



Fonzie, Richie, la signora Cunningham... Cinquant’anni fa andava in onda la prima puntata della geniale sit-com che segnò una generazione, riuscendo a creare un mondo di buoni sentimenti in un pessimo periodo storico. Un’isola di leggerezza celebrata anche da un libro.

«Se la televisione era l’educazione del pubblico americano, allora Happy Days era la ricreazione. E io ho sempre amato di più la ricreazione». Questa era la frase che ripeteva Garry Marshall, il padre, il produttore esecutivo, la vera anima della serie più famosa della tv americana. Un successo planetario andato in onda per la prima volta un martedì di 50 anni fa negli Stati Uniti, il 15 gennaio 1974, alle otto di sera sul network Abc. Dieci anni, 11 stagioni, 255 episodi, ha segnato per sempre la storia della televisione. E anche la nostra.

Per celebrare quei «giorni felici» Giuseppe Ganelli, medico radiologo di Codogno, ma soprattutto il più grande collezionista esistente di cimeli della sit-com (ne ha oltre duemila tra abiti di scena, foto, arredi) insieme al giornalista Emilio Targia, caporedattore a Radio Radicale, hanno scritto La nostra Storia. Tutto il mondo di Happy Days (Minerva). Una sorta di Bibbia, il primo (e per ora unico) libro sulla famiglia Cunningham. «Siamo amici da molti anni, appassionatissimi della serie, e dopo una ricerca abbiamo scoperto che non c’era nulla che raccontasse cosa era stato davvero questo telefilm. Così abbiamo iniziato a scrivere. Ci abbiamo messo tre anni. È stato un viaggio: partito dalle origini per addentrarsi nella storia della tv americana, raccontando la produzione, le location, i modelli dei flipper, le musiche, gli spin- off». Dalle moto usate da Fonzie alla piantina della famosa casa ricostruita all’interno degli studi della Paramount, fino alle interviste esclusive a tutto il cast. Non solo, nel libro ci sono inedite curiosità come la visita di John Lennon con il figlio Julian sul set nel 1974. Oppure la parodia hard del regista porno Axel Braun: This Ain’t Happy Days XXX, ossia «Questi non sono giorni felici XXX».

L’idea alla base del telefilm è così lieve, semplice da fare quasi tenerezza oggi che siano travolti da sofisticatissime trame. Venne a quel genio di Marshall, che poi si chiamava Masciarelli ed era figlio di immigrati abruzzesi, l’uomo che lanciò Robin Williams e Julia Roberts (fu il regista di Pretty Woman): una famiglia normale con la mamma che fa le torte, il papà repubblicano che ha un negozio di ferramenta, il figlio un po’ imbranato, la sorellina rompiscatole, gli amici sfigati. E poi il deus ex machina, Fonzie, un ragazzo più grande, che aveva lasciato la scuola e faceva il meccanico, un duro con un codice etico. Con la moto e il giubbotto di pelle alla James Dean sapeva risolvere la vita meglio del maestro Shifu. «Era il personaggio che incarnava più valori. Il punto di equilibrio. La sua ribellione era moderata, solo Tom Hanks, alla sua prima apparizione, gli mise le mani addosso. Era l’amico che tutti avremmo voluto, capace di ribaltare ogni situazione», spiega il giornalista. E poi Milwaukee, il Midwest, la provincia politicamente disimpegnata, dove vivere sembrava più semplice. Ma la vera intuizione fu di ambientarlo negli anni Cinquanta. Fuori - siamo negli anni Settanta, non dimentichiamolo - c’era la guerra del Vietnam, Richard Nixon e lo scandalo Watergate, la crisi del petrolio. Il sogno si era già infranto, l’innocenza era ormai perduta. Ma dentro lo schermo, c’era l’America migliore. Quella degli anni spensierati, del rock’n’roll, delle gonne a ruota e dei golfini strizzati di angora dai colori improbabili. Niente droga, né sesso, si amoreggiava con pochi baci e molti sospiri, la macchina nuova era parcheggiata nel vialetto davanti a casa, c’era Arnold’s il drive-in e la Loggia del Leopardo. Le famiglie avevano valori solidi, erano un rifugio e quella di Happy Days diventò fin da subito il luogo dove fermarsi per dimenticare, anche per poco, il Paese smarrito che esisteva fuori.

In Italia arrivò l’8 dicembre 1977 e ancora oggi vanno in onda le repliche seguite da un pubblico trasversale. Un sondaggio del 2009 stabilì che tra i telefilm degli anni Settanta e Ottanta, come la cucina Scavolini Happy Days restava il più amato dagli italiani. I Cunningham impersonavano la famiglia «aggiuntiva» che in fondo al cuore tutti gli adolescenti desideravano. Quindici milioni di telespettatori si incollavano ogni sera su Rai Uno alle 19,20, rimandando anche la cena. La sua iconica sigla (che tutti noi boomer sappiamo a memoria e chi dice il contrario sa di mentire) segnava la fine del pomeriggio. Quando il pomeriggio ancora esisteva tra sana noia e compiti. Lucio Battisti confessò: «Qualche volta vorrei essere come Fonzie e Richie anche se non ho più l’età. Mi ci troverei in mezzo e canterei una delle mie canzoni». Max Pezzali con gli 883 gli dedicò una celebre strofa: «Gli anni d’oro del Grande Real, gli anni di Happy Days e di Ralph Malph». Scende la lacrimuccia. Ha scritto la postfazione, raccontando come, anche a Pavia, quello era il tempo della contestazione, delle manifestazioni, delle cariche della polizia. Gli anni di Piombo. Tornare a casa da scuola e guardare la sit-com era come entrare in un sogno: «Quei colori ci facevamo evadere dal grigio del fumo dei lacrimogeni e dalla nebbia della Pianura Padana. Quei colori erano la Terra Promessa».

Nel ’79 il sociologo Alberto Abruzzese sulla rivista comunista Rinascita la definì: «Una serie dalla calcolatissima programmata elaboratissima stupidità». Ma per Ganelli, e per la gran parte di chi la seguiva, era: «La mia adolescenza, il ricordo di un periodo della vita felice. Mi identificavo con il timido Richie. Rivivevo le tematiche comuni: gli amici, le ragazze, le macchine, il rapporto con i genitori. E poi fu la scoperta degli Stati Uniti, allora un mondo lontanissimo, che noi idealizzammo attraverso quelle storie». Per passione il medico fondò il primo Happy Days International Fans Club. «È nato alla fine degli anni Novanta per entrare in contatto con altri ragazzi e scambiarci materiale. Facevamo anche una fanzine. Poi andai in America a incontrare tutto il cast, con cui ho mantenuto una lunga e affettuosa amicizia. Soprattutto con Henry Winkler, che ho rivisto l’anno scorso a Los Angeles. Quando gli chiesi di scrivere la prefazione accettò con la solita gentilezza e simpatia».

Per l’attore interpretare Fonzie fu il primo vero lavoro, un successo inimmaginabile. Nel ‘76 riceveva dai fans 55mila lettere a settimana. Nelle ultime serie guadagnava un cachet che oggi sarebbe stato intorno al milione di dollari a puntata. Ma inevitabilmente Fonzie ha divorato Henry. «Non lo ha mai rinnegato, ma sono sicuro che abbia sofferto», riflette Ganelli. Per anni è rimasto bloccato dentro a quel personaggio che andava in moto (mentre lui non ne era capace) e quando schioccava le dita accorrevano le ragazze. E che dispensava mitici «Hey, Wow». Nella prefazione confessa: «Io e Fonzie siamo molto diversi e allo stesso tempo simili. Non sono mai stato un figo. Non ho mai avuto la sua disinvoltura con le ragazze. E non sono mai riuscito a far partire il juke-box con un colpo della mano». A ogni botta sul vetro c’era «il meraviglioso Bob» che dietro le quinte attaccava la spina. La “Fonziemania” esplose inaspettata, soprattutto dalla terza stagione in poi quando si trasferì a vivere sopra il garage. Un business da dieci milioni di dollari tra magliette, gomme da masticare e teli mare con Fonzie con il pollice alzato. Fu così dirompente che Ron Howard, ossia Richie Cunningham, ebbe una crisi, sentendosi messo in ombra. Lui che è diventato uno dei più grandi registi della sua generazione, firmando film come Il Codice da Vinci e A Beautiful Mind, con cui vinse l’Oscar. Ed è sempre lui che ha ammesso: «Tutto quello che sono lo devo a Happy Days».

Anche l’immenso Robin Williams esordì su quel set nei panni di un alieno, Mork, da un’idea del figlio di Marshall, appassionato di Guerre Stellari. Spiega Targia: «Quando arrivò era la quinta stagione ed era un perfetto sconosciuto. Venne scelto per la sua anarchia, per il talento straripante. C’è un ricordo commovente di Marshall. Loro due che camminano di notte chiacchierando e lui gli chiede: «Pensi che cresceremo mai?». Non è successo. Quel mondo è rimasto cristallizzato, pulito, sano, intoccabile. Un piccolo miracolo realizzato grazie al suo produttore. Questa è stata la grande forza: creare una vera famiglia. Dove tutti si aiutavano, nessuno si sentiva una star, non c’era competizione tra gli attori perché sapevano benissimo che dovevano il loro successo a quella intuizione originale. E non dovevano disunirsi, perché quando la luce si fosse spenta fuori c’era Hollywood pronta a divorarli. «Marshall diceva che Happy Days era il motore di tutto. Da lì sono usciti registi importanti, attori straordinari, agenti, crooner, doppiatori. Ciascuno ha trovato le sua strada felice», conclude il giornalista. Ma non Erin Moran, ossia Joanie Cunningham, «Sottiletta», la pestifera teenager del gruppo. «Lei non aveva una famiglia alle spalle. Quando la serie si è conclusa, si è trovata da sola a dibattersi tra approfittatori, travolta da alcol e droga». È morta nel 2007 per un tumore alla gola. Però il suo matrimonio con Chachi, l’attore Scott Baio, nell’ultima puntata, resterà per sempre a ricordare non solo la fine di un’epoca, ma di tutto quello che poteva essere e non è stato. Erano i nostri giorni felici, peccato che forse non lo abbiamo capito in tempo.

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