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Missione (quasi) impossibile: salvare l'acciaio italiano



C’è la questione dell’ex-Ilva. E ci sono altri impianti in sofferenza a Piombino. A Nord, invece, le imprese si aggiornano. È più che mai urgente un piano nazionale per il settore. Mentre l’Europa impone una difficilissima transizione verde.

«Servirebbe un piano nazionale per la siderurgia» dice Roberto Benaglia, segretario della Fim Cisl: il problema è che qualsiasi strategia per rilanciare l’industria pesante per eccellenza passa, per forza di cose, dall’ex Ilva. L’unico produttore di acciaio primario in Italia e dunque in teoria fornitore principale di tutto il sistema, che è entrato in una spirale infinita di guai industriali e giudiziari. L’ingresso del colosso franco-indiano ArcelorMittal, nel 2018, non ha risolto il problema. E neppure quello, al suo fianco, del socio pubblico Invitalia. Il gruppo si è trovato paralizzato dal braccio di ferro tra governo - tramite Invitalia appunto - e il partner privato. Un cul de sac fitto di contatti e incontri, da cui, nel momento in cui scriviamo, si fatica a intravedere vie d’uscita. Ma la crisi dell’acciaio italiano non è solo Ilva. C’è la ex Lucchini di Piombino, per esempio. E, lì vicino, la Magona. Certo, il contesto non è dei più felici. Uno dei principali problemi le aziende europee del settore ce l’hanno in casa. Il Green new deal di Bruxelles impone obiettivi di decarbonizzazione, in alcuni casi utopistici, senza prevedere un adeguato piano di incentivi.

Numeri alla mano: per riconvertire la produzione di 20 milioni di tonnellate di acciaio, più del 20 per cento della produzione europea, occorrono circa 20 miliardi di euro. Chi ce li mette? Poi c’è il sistema dei cosiddetti certificati verdi: nella sostanza, se si «porta» nell’Unione europea acciaio non pulito si paga una sorta di tassa di ingresso, i certificati verdi appunto. Un sistema assai complesso, per niente infallibile, anzi, e che tra qualche anno rappresenterà un balzello anche per le imprese dell’Ue che oggi non li pagano. Scelte miopi che penalizzano i gruppi del settore: dopo due anni (il 2021 e il 2022) di utili record, infatti, la produzione è tornata in forte sofferenza. Motivi? Molteplici, non ultima l’incertezza alimentata dal nuovo conflitto mediorientale, ma per un comparto che necessita di grandi investimenti a un ritmo abbastanza regolare, il rialzo dei tassi di interesse è stata una «mazzata». Vero che la stretta della Banca centrale e europea si è fermata, ma è altrettanto imperscrutabile il futuro (nel 2024 ci sarà il primo taglio del costo del denaro? E quante correzioni possiamo aspettarci?), quindi buona parte delle «spese straordinarie» è stata rimandata a tempi migliori.

«Se si parla con la maggior parte degli attori della filiera» spiega Benaglia a Panorama «evidenzieranno che le imprese italiane partono con un “dumping ” competitivo sul costo dell’energia rispetto alle altre aziende europee, uno svantaggio iniziale che alla lunga fa la differenza. In Germania, per esempio, sono previsti aiuti in bolletta per le imprese energivore da qui al 2030 per circa 12 miliardi, mentre da noi c’è poco o nulla». Eppure parliamo di una produzione strategica - la domanda di acciaio, fondamentale nell’edilizia e nell’automotive, rappresenta uno degli indicatori più fedeli dello stato di salute dell’economia - che tra addetti diretti e indotto oggi vede circa 30 mila posti di lavoro a rischio nel nostro Paese. «La siderurgia in Italia vive una realtà ambivalente» continua il sindacalista della Cisl. «Da una parte ci sono i grandi acciaieri del Nord, tra Lombardo e Veneto, che si sono aggiornati con investimenti nelle nuove tecnologie e nonostante il momento di difficoltà mantengono alti livelli di produzione ed esportazione. I nomi sono quelli noti, da Arvedi a Marcegaglia per arrivare a Duferco e Acciaierie Venete. E poi ci sono gli altri che per i motivi accennati sono in sofferenza. Stiamo affrontando una grande transizione ambientale e quindi energetica, ma l’Europa non può chiedere alle aziende di riconvertirsi senza mettere in campo un programma di incentivi adeguato, a Bruxelles manca una politica industriale di lungo periodo e mentre Germania e Francia che hanno basi più solide riescono a sopravvivere, l’Italia fatica. Servirebbe un piano nazionale per la siderurgia che da anni manca al nostro Paese».

Prima di tutto, c’è da vedere cosa ne sarà dell’Ilva. Da mesi, la situazione degli impianti è insostenibile. L’ad di Acciaierie d’Italia Lucia Morselli - indicata da ArcelorMittal - ha chiesto un aumento di capitale da 320 milioni di euro. Il governo replica che serve un supporto finanziario da parte dei soci di almeno 1,3 miliardi per sostenere la produzione e acquisire gli impianti. Entro maggio 2024, Acciaierie d’Italia dovrebbe comprare gli impianti dalla gestione commissariale. Oltre al prezzo, ci sarebbero anche un miliardo di arretrati accumulati verso la stessa gestione. Al 31 dicembre 2022, ultimo aggiornamento disponibile, erano 812,8 milioni di euro. Di questi, 576 milioni erano relativi al magazzino e il resto al canone di affitto, che per metà (150 milioni all’anno) viene pagato periodicamente mentre l’altra metà dovrà essere saldata alla fine del contratto.

I 320 milioni chiesti da Morselli invece basteranno appena per ripristinare la fornitura di gas agli impianti e saldare una parte dei debiti verso i fornitori. A fine 2022, l’ultima fotografia disponibile, erano 1,4 miliardi. Di questi, oltre 350 milioni erano nei confronti di Eni per le bollette del gas non pagate. Le due società si sono accordate per un piano di rientro, ma la rata dello scorso ottobre non è stata versata. Impossibile fare ricorso all’indebitamento bancario. La società, che di fatto non possiede asset perché la proprietà è rimasta alla vecchia Ilva, non può offrire le necessarie garanzie. E quelle che può fornire non sono ritenute sufficienti. Tutto il sistema dell’indotto è in forte sofferenza a causa dei ritardi nel saldo delle fatture. Eppure, il rapporto tra la holding statale Invitalia e il colosso franco-indiano era nato sotto auspici ben diversi. «Via libera all’accordo di investimento tra Arcelor Mittal Holding Srl, Arcelor Mittal Sa e Invitalia per una nuova fase di sviluppo ecosostenibile dell’Ilva di Taranto», recitava il comunicato che, il 10 dicembre 2021, annunciava l’intesa. Secondo i patti, a maggio 2022 lo Stato avrebbe preso la maggioranza, iniettando altri 680 milioni di capitale. La scadenza di maggio 2022 è stata spostata in avanti di due anni. I 680 milioni di soldi pubblici sono arrivati comunque, come anticipi sul prossimo aumento di capitale. Ma sono stati impiegati per le esigenze di cassa dell’impresa. Gli obiettivi di produzione promessi non sono stati raggiunti. Lo «sviluppo ecosostenibile» di Taranto è a oggi quantomeno incerto. Nel mezzo c’è stata anche una spaccatura nel governo, tra Adolfo Urso - il ministro delle Imprese - e Raffaele Fitto, responsabile delle Politiche europee. Nel frattempo, la situazione si è deteriorata al punto che qualcuno ritiene irreparabile malgrado le promesse e gli impegni presi dal governo.

Vedono invece una luce in fondo al tunnel i circa 1.400 dipendenti delle acciaierie ex-Lucchini di Piombino. Il colosso ucraino Metinvest e la friulana Danieli hanno infatti presentato un progetto concreto per l’avvio entro il 2027 di uno stabilimento green, tecnologicamente all’avanguardia e più compatto rispetto all’attuale sito (saranno occupati 200 degli 580 ettari). Un prospettiva allettante, si parla di una produzione fino a 2,7 milioni tonnellate di acciaio all’anno per un giro d’affari di 2,5 miliardi di euro, che però deve fare i conti con diverse incognite. In primis la necessità di trovare un accordo con Jsw Steel Italy, l’azienda (il vicepresidente esecutivo è Marco Carrai) che detiene le concessioni sulle aree dell’impianto. Quindi bisognerà capire con tutti i soggetti coinvolti - enti locali, governo e sindacati - come arrivare all’inaugurazione del nuovo sito senza «ripercussioni» per il lavoro. Strettamente legata al rilancio di Piombino è anche la Magona, l’altra acciaieria della città toscana. Occupa 500 persone, 400 diretti più cento assunti da ditte esterne. È di proprietà della Liberty Steel del magnate indiano Sanjeev Gupta. Nel 2020 Liberty Steel è stata travolta dal crac di Greensill, il principale finanziatore del gruppo. Da allora, la Magona va avanti con l’autofinanziamento e con un sapiente uso della cassa integrazione.

La materia prima viene pagata con gli incassi dei prodotti finiti venduti ai clienti. Il progetto per la ex Lucchini presentato da Metalinvest e Danieli prevede che il nuovo impianto produca anche i semilavorati che vengono trasformati dalla Magona. Si realizzerebbe così una filiera integrata che potrebbe rendere lo storico impianto appetibile per un investitore. Ma per vedere la luce, come detto, il progetto ha bisogno di almeno quattro anni. La Magona tutto questo tempo non ce l’ha e neppure l’acciaio italiano.


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