Peter Dinklage: «In amore le dimensioni non contano»

Quando mi è stato offerto il ruolo di Tyrion Lannister all’inizio ho rifiutato, perché di solito nel genere fantasy a quelli come me vengono riservati ruoli da bizzarre creature. Ma conoscevo David Benioff, l’ideatore de Il Trono di Spade, e avevo apprezzato il suo romanzo La 25a ora, e così sono andato a incontrarlo per parlarne. Quando mi ha spiegato che Tyrion sarebbe stato un essere umano e non una caricatura, alla fine ho accettato». Peter Dinklage, 54 anni, attore americano, deve quasi tutto all’interpretazione di uno dei personaggi più amati della serie tv di HBO che ha conquistato pubblico e critica per otto anni («quello show ha preso un pezzo della mia vita, un periodo lunghissimo trascorso per metà in Irlanda», ricorda l’attore). Se sei affetto da acondroplasia, malattia genetica che riduce la crescita degli arti, e sei alto solo un metro e 35 centimentri, è dannatamente difficile diventare attore, figuriamoci una star del cinema. Eppure grazie a Tyrion, Dinklage è uscito dal ghetto spesso riservato ai «nani», ha un enorme seguito di fan e può persino vestire i panni di personaggi slegati dal proprio aspetto fisico. «Chi interpreto non ha nulla a che fare con me, perché non è la mia vita ad essere raccontata in un film», spiega a Panorama l’attore, «per cui la mia altezza non c’entra nulla. E anche se ad inizio carriera venivo chiamato per interpretare personaggi la cui statura era l’aspetto determinante, a un certo punto ho iniziato a rifiutarli, perché per me erano solo esempi di cattive sceneggiature. Da ammiratore di interpreti come Harrison Ford o di Cary Grant, magnifici attori scelti anche come protagonisti di commedie romantiche, sognavo di avere un’opportunità del genere».

E dopo aver interpretato una versione «su misura» di Cyrano, scritto dalla moglie Erica Schmidt, regista teatrale e sceneggiatrice, a furia di non arrendersi il desiderio si è avverato con She Came to Me, film di Rebecca Miller presentato al festival di Berlino e in uscita il 15 gennaio a noleggio su Prime Video, Google Play, iTunes, Rakuten. Qui Dinklage è Steven un compositore newyorkese di opere liriche, felicemente sposato con la terapeuta Patricia (Anne Hathaway) e patrigno affettuoso del figlio di lei Julian (Evan Ellison). Dopo aver deliziato il mondo con il frutto del proprio genio, l’uomo è incappato in un blocco creativo apparentemente senza uscita, che lo ha gettato in preda all’ansia e allo sconforto. Un giorno però in un bar di Brooklyn conosce Katrina (Marisa Tomei), capitano di un rimorchiatore innamorata pazza dell’amore e del romanticismo, la seduce e la segue fino alla sua barca, dove i due finiscono a letto. L’incontro riaccende la verve creativa di Steven, che decide di trasformare Katrina nella musa ispiratrice di una nuova opera lirica, mentre il proprio matrimonio va in crisi. «La musica ha sempre avuto enorme importanza nella mia vita. Mia madre l’insegnava e mio fratello suona il violino. Io stesso negli anni Novanta suonavo al CGBG, storico rock club nel Lower East Side di New York. Avevo una band che poi però si è sciolta perché mentre alcuni sarebbero voluti diventare musicisti di professione, io e altri no. Volevo recitare anche se prima di averne davvero il coraggio ho iniziato a lavorare come impiegato», racconta Dinklage.

A cosa si è ispirato per interpretare Steven?

Steven è divorato dall’ansia, come tutti noi, che siamo subissati da informazioni attraverso i nostri smartphone e non abbiamo nemmeno il tempo di processarle. Credo che viviamo tempi complicati, in cui tante persone hanno paura del futuro, ed è per questo che per sopravvivere indossiamo delle maschere. Oltretutto Steven vive nella mia città, New York, dove tutti sono estremamente nevrotici (ride, ndr). Conosco molti artisti che per questo motivo sono andati a vivere fuori, in campagna.

I suoi personaggi come Steven o Tyrion hanno un humour contagioso. Che origine ha?

Il carattere dei personaggi non lo scrivo io, ma certamente cerco di metterci una parte di me. L’umorismo e l’ironia sono strumenti per sopravvivere: quando non sei alto un metro e ottanta, l’unica strada che ti resta per affascinare le donne è quello di farle ridere. Però in generale mi piace divertire le persone: è un modo di difendersi dai propri complessi d’inferiorità, anche se mi rendo conto che l’insicurezza colpisce chiunque. Col tempo ho scoperto che è anche un eccellente lubrificante sociale, perché la gente quando ride si rilassa e diventa più disponibile, più aperta. Questo non vuol dire però che se sei divertente sei anche felice: le persone più divertenti che conosco non lo sono affatto.

Lei oggi ha una lunga barba, come Steven: negli ultimi tempi sembra diventato un suo tratto distintivo.

Nel privato la porto da un po’, anche perché odio radermi, ma al cinema questo dipende forse dal fatto che di recente non mi è capitato di interpretare uomini d’affari, di quelli che hanno una rasatura perfetta ogni mattina. Ho pensato che Steven, essendo un artista, poteva avere questo look un po’ trasandato. Ora poi sto interpretando un western di cui però non posso parlare (è probabilmente il remake de Il mucchio selvaggio, ndr).

Nel film Steven deve affrontare un importante blocco creativo e va nel panico. Lei cosa fa per risolvere simili situazioni?

Steven è un compositore, mentre io sono un attore e il mio compito è mettere in scena ciò che altri hanno scritto. In questo senso ho il lusso di fare un lavoro in cui la creatività viene dalla collaborazione con più persone. Un blocco creativo, per quanto riguarda un attore, è l’incapacità di connettersi a un personaggio. Situazione, secondo me, più legata alla dinamica con gli altri che a un fattore puramente individuale. Si dice che ci vogliono almeno due persone per fare un tango. Ecco, per fare il cinema ce ne vogliono almeno cinque o sei. Nella maggior parte dei casi anche molto di più.