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Il partito dei no ai diktat verdi



Se si seguissero i piani Ue, l’agricoltura continentale ne uscirebbe gravemente ridimensionata (anche in Italia ora si incentiva la «non coltivazione»). Ma i lavoratori del settore, a furia di proteste, sono diventati un soggetto politico capace di condizionare le elezioni in vari Paesi, in attesa di pesare anche su quelle europee.

Da un trattore che «assedia» la porta di Brandeburgo pende un cartello: «No farm, no food, no future». È la risposta esasperata dei contadini a chi ha deciso che l’Europa deve essere un immenso deserto verde, ricoperto di erbe spontanee, di foreste incontrollate per dare retta a chi ha inscenato i Fridays for future, a chi ha scritto il Farm to Fork, il cuore del Green Deal. La risposta è: senza agricoltura, non si mangia e non c’è futuro. È significativo che l’ultima protesta dei trattori parta dalla Sassonia, dilaghi a Berlino, tracimi sugli Champs-Élysées dove appena tre settimane fa sono state scaricate tonnellate di letame, s’ingrossi in Olanda e vada a frangersi - manca pochissimo - davanti a Palazzo Berlaymont a Bruxelles, la «casa» della teutonica Ursula von der Leyen che sta a capo della Commissione europea. Gli euroburocrati hanno provato a spiegare che le proteste tedesca, francese e olandese sono determinate da ragioni «locali». A smentirli ci ha pensato il capo dei contadini tedeschi Joachim Rukwied: «Vogliamo che Olaf Scholz (il sempre più precario cancelliere, ndr) ci restituisca i contributi sul gasolio e tolga le tasse sui trattori, ma vogliamo che l’Europa torni indietro sul Farm to Fork e cessi la penalizzazione degli agricoltori».

A giugno si vota per il nuovo parlamento europeo: sulle elezioni c’è l’ipoteca agricola. La geografia del «potere» continentale potrebbe essere sconvolta dal voto delle stalle e dei campi. È successo in Olanda, dove Frans Timmermans, ex vicepresidente della Commissione europea e padre del Farm to Fork, è stato sconfitto dal partito dei contadini. Succederà in Germania dove la Cdu da sempre è il partito dei campi, ma dove in tutto l’Est che dalla Pomerania alla Sassonia è l’epicentro della protesta, Alternative für Deutschland è di gran lunga il primo partito nelle intenzioni di voto. E accadrà anche in Francia, dove il ministro agricolo Marc Fesnau, prima della crisi aperta con le dimissioni della premier Elisabeth Borne, ha promesso sussidi - per esempio al vino e ai cereali - in barba ai divieti di Bruxelles e leggi «anti-europee» come il no alla carne coltivata copiando dall’Italia per cercare di arginare la fuga dei «fermiers» verso Marine Le Pen. Gli agricoltori d’Oltralpe non vanno per il sottile: ce l’hanno con l’Europa per i limiti imposti alle coltivazioni, per la lentezza dei contributi della Pac, per l’import di prodotti extra Ue che fanno dumping sui prezzi, per i favori che a loro dire la Commissione concede alla grande distribuzione e alle multinazionali.

L’Europa dei campi svolta a destra e diventa soggetto politico di protesta: vale in Ungheria dove Viktor Orbán cavalca il malcontento dei produttori di grano che vogliono bloccare le importazioni di favore dall’Ucraina così come in Slovacchia e in Polonia, vale in Belgio dove da marzo non si è mai sopito il movimento delle stalle che contesta apertamente le politiche europee sulla zootecnia, vale e varrà ancora di più in Olanda dove per diktat del fu governo Rutte in accordo con Bruxelles devono essere abbattuti 30 milioni di capi fra bovini, suini e polli con la chiusura di 11.200 allevamenti. Un primo segnale che questa rivoluzione dei campi peserà nell’urna viene da un recentissimo sondaggio di europeelects.eu - sito specializzato in rilevazioni sul continente - che stima che i Verdi caleranno nel prossimo parlamento di Strasburgo a 49 eletti dagli attuali 74. La batosta più grossa dovrebbero averla nella Germania roccaforte degli ambientalisti, passando dal 24 al 13 per cento, ma - come ha ammesso la copresidente del partito Verde europeo Mélanie Vogel al loro recente congresso a Vienna - «Il principale rischio politico per noi è l’ascesa di coalizioni di destra nei governi degli Stati membri».

Che il dogma green si sia spinto un po’ troppo in là lo sostiene anche uno che è iper-verde e però sta cercando di salvare la poltrona. È Cem Özdemir, ambientalista vegano, ministro agricolo della Germania. È stato lui il primo a dire: non si coltivano 300 ettari di terreno con i trattori a batteria: il gasolio ci vuole. E ancora: non va bene immaginare un’Europa che non produce e importa. Ma la battaglia più importante l’ha fatta sull’obbligo di rotazione annuale dei cereali. Secondo il regolamento «standard Gaec 7» per favorire la biodiverstà i contadini non possono piantare grano là dove l’anno prima hanno coltivato cereali. Significa che la Germania deve rinunciare ogni anno a 5 milioni di ettari, a metà della sua produzione. Per la Francia - primo produttore europeo - significa rinunciare a 14 milioni di tonnellate (la metà di quelle che produce) e noi dovremmo dire addio a due milioni di tonnellate di grano duro (siamo il primo produttore europeo con quattro milioni). Vuol dire raddoppiare le importazioni da Paesi che non hanno i nostri stessi standard.

All’obbligo di rotazione si aggiunge il Farm to Fork che prevede l’abbandono del 10 per cento dei terreni agricoli, la conversione a biologico di un quarto della superficie coltivabile, l’abbattimento dei concimi e dei fitofarmaci della metà entro il 2030 e la sparizione completa entro il 2050. Sono misure che rischiano di distruggere del tutto l‘agricoltura europea. È una china pericolosissima come dimostra un dossier di Divulga, uno dei più importanti centri-studio agricoli d’Europa, che ha messo a confronto le stime fatte da tre importantissimi istituti di ricerca – Jrc, Istituto di ricerca della Comunità europea, Università di Wengen e Dipartimento agricoltura degli Usa - dell’impatto del Farm to Fork sulla produzione continentale. Si va verso una riduzione tra il 10 e il 20 per cento delle produzioni europee al netto dei provvedimenti sui cereali, un incremento di importazioni tra il più 93 per cento per gli agrumi e il più 209 per cento per il mais e aumenti di prezzo folli: più 24 per cento per i bovini, più 43 per cento per il maiale, più 42 per cento per olio e vino con un crollo dell’export di 30 punti.

L’Europa vista dai campi è un fallimento. E tutto in nome di un presunto abbattimento dei gas climalteranti. Quelli originati dai campi e dagli allevamenti europei sono pari al 10,4 per cento dei gas emessi nel continente che, a sua volta, libera in atmosfera circa il nove per cento di tutti i gas del pianeta. Si sceglie la desertificazione dei campi per contrastare meno dell’un per cento di tutte le emissioni in atmosfera. Come rileva Felice Adinolfi, docente all’università di Bologna e direttore di Divulga, c’è il rischio «che l’Europa faccia una corsa solitaria alla transizione ecologica in agricoltura». Lo dicono i numeri. Il Brasile è il nostro primo fornitore (compriamo per nove miliardi di euro) seguito da Usa (ci vende per sei miliardi) e Cina (importiamo per 2,6 miliardi di euro). In tre fanno il 27 per cento delle emissioni agricole globali, che sono cresciute del 15 per cento tra il 1990 e il 2019. Solo l’Europa le ha diminuite del 18,5 per cento. Scrive Adinolfi con i suoi collaboratori: «I dati raccolti ci raccontano che coltivare un ettaro di soia o produrre un chilo di carne in Europa è, oggi, largamente più sostenibile che in altre parti del mondo. Il tema della reciprocità degli impegni ambientali e sociali diventa oggi cruciale affinché l’iniziativa europea di lotta alla crisi climatica sia un successo e non si trasformi in un boomerang». Ma gli effetti già si vedono. L’Emilia Romagna ha varato una legge - le domande si possono presentare fino al 15 marzo - che compensa con 1.500 euro (è il massimo) all’anno per vent’anni ogni ettaro di coltivazione di cereali abbandonato. Siamo nella pianura più produttiva d’Italia dopo la Puglia, nella «food valley» che deve chiudere per non inquinare. Se poi l’inflazione alimentare s’impenna, se l’Europa che sdogana i «novel food »– le farine d’insetti al posto di quelle di grano sono già commerciate in Italia – vuole nutrirci con la carne coltivata o le larve e le cavallette, non va fatto. E però il presidente della Regione Stefano Bonaccini (Pd) al governo chiede per la Romagna alluvionata «un piano shock per il comparto agroalimentare».

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