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Quando la beneficienza diventa un business



Imprese che con l’etichetta «benefit» promuovono iniziative sociali o ambientali, facendo al tempo stesso ottimi affari. Sviluppatosi negli Stati Uniti, con la Fondazione di Bill Gates in testa, il settore è in forte crescita. Resta da misurare quanto l’altruismo che fa utili giovi alla cultura della solidarietà.

Potrebbe essere la carità il più grande business del secolo? E, in un futuro non troppo lontano, si arriverà a compiere opere di bene attraverso l’algoritmo? All’estero, fior di accademici hanno scandagliato il fenomeno della Corporate Philanthropy, esaltandone gli aspetti competitivi, sia sociali sia economici, apportati alle imprese in termini di «benefici strategici». È il potere incontrastato del filantro-capitalismo, un neologismo introdotto nel 2006 dal settimanale The Economist e basato su un ossimoro, dato che fonde due concetti considerati antitetici in economia: filantropia e capitalismo.

Ma cosa accade quando i confini tra i due termini diventano così sfumati da diventare intercambiabili? È qui che la questione si fa spinosa e anche gli studiosi arrancano. Si è tornati a parlare di «inganno della solidarietà» dopo lo scandalo delle cooperative per l’accoglienza dei migranti gestite dalla famiglia del parlamentare (non indagato) Aboubaka Soumahoro. Il deputato ivoriano entrato in Aula con gli stivali da bracciante ma folgorato, a scandalo ormai esploso, dall’inedita rivendicazione di un «diritto alla moda». Ancora più clamorosa l’indignazione suscitata dal «Pandorogate» con protagonista Chiara Ferragni. La promozione del pandoro Pink Christmas è stata ammantata da un’aura di beneficenza «glamour». Andata in frantumi, insieme alla sua reputazione, dopo la scoperta della totale estraneità dell’influencer all’operazione filantropica. «La filosofia del dono è servita alla Ferragni per crearsi un’immagine ai limiti della santità e per aumentare da un lato la sua cerchia di followers, e dall’altro maturare sempre più profitti, visto che lei stessa è una macchina per fare soldi» commenta Enrica Perucchietti, saggista che ha curato l’edizione italiana di Altro che filantropi! di Linsey McGoey. Una delle più dettagliate inchieste sul tema del «capitalismo della filantropia», in cui analizza «come la carità è diventata il più grande affare del secolo».

Pensare che c’era un tempo in cui le vere celebrità, da Lady Diana a Audrey Hepburn, prestavano il loro volto a scopo benefico gratuitamente. Quel tempo è ormai tramontato ed è coinciso con l’avvento delle cosiddette società benefit, che hanno spostato il monopolio della solidarietà dal Terzo al Quarto settore. Negli ultimi anni le imprese che hanno fatto della solidarietà il proprio «core-business» sono cresciute in modo esponenziale. Quasi la metà delle oltre 85 mila fondazioni private negli Stati Uniti sono nate negli ultimi due decenni, ha documentato la McGoey, consentendo di finanziare un numero crescente di iniziative filantropiche in ogni parte del globo e nei settori più disparati. Anche l’Italia non è rimasta a guardare: dal 2016 ha introdotto, per prima in Europa, la formula giuridica delle benefit corporations, già adottata da oltre mille imprese e ricalcata sul modello che arriva da oltreoceano. Sul portale Società Benefit sono elencati tutti i vantaggi di questo nuovo tipo d’impresa, definito «un’evoluzione del concetto stesso di azienda», tra cui figurano: la «protezione legale per bilanciare gli interessi finanziari e non finanziari», «una reputazione da leader» e «maggiore accesso agli investimenti di capitale privato».

Secondo uno studio realizzato dal team di ricerca Social innovation monitor (Sim) del Politecnico di Torino, nel corso del 2022 il numero di startup innovative a vocazione sociale è diminuito (-9,2 per cento), mentre il numero di startup innovative con qualifica di Società benefit è aumentato sensibilmente (+38,2 per cento) così come quello delle B Corp (+55,6 per cento). Inoltre, le 22 migliori startup italiane a significativo impatto sociale e ambientale hanno mediamente registrato oltre due milioni di euro di ricavi, con una crescita annuale media del 217 per cento, e almeno 18 dipendenti, con una crescita annuale media del 146 per cento. Sono società in grado di attrarre finanziamenti, anche internazionali, e hanno raccolto in media 3,9 milioni di euro di investimenti in capitale di rischio o di finanziamenti a fondo perduto. A oggi le startup che hanno dichiarato ufficialmente il proprio impatto sociale o ambientale tramite qualifiche come quelle di Società Benefit (SB) o B Corp rappresentano quasi il 5 per cento delle startup innovative. Un trend in crescita, sebbene ancora limitato, rispetto al 3 per cento del 2021.

Se ancora è presto per un bilancio complessivo dei benefici (e risultati) che questa trasformazione apporterà alla «cultura della solidarietà» delle nostre imprese, tuttavia possiamo già constatare come l’etichetta «for benefit» abbia completamente rivoluzionato lo scenario della beneficenza negli Stati Uniti. Dal 2010 in America si assiste all’iperattivismo filantropico di multinazionali, fondazioni, benefit corporations e iniziative radicali, come quella del Giving Pledge capitanata da Bill Gates e Warren Buffet, che hanno convinto più di cento miliardari americani a donare (o meglio a «reinvestire») almeno metà della propria ricchezza, quasi 200 miliardi di dollari in totale, in beneficenza. Un’iniziativa che è servita a lanciare anche il movimento dell’Effective Altruism, dilagato grazie alle munifiche donazioni esentasse delle start-up della Silicon Valley, che hanno «ingegnerizzato» persino la carità. Rendendola sempre più dipendente da strumenti come gli algoritmi e sollevando molti quesiti di natura morale. Inoltre la generosità dei super ricchi, stando alla classifica Forbes 400 del 2023, rischia di essere un messaggio ingannevole: due terzi dei 400 miliardari americani hanno donato meno del 5 per cento della loro fortuna in beneficenza. E solo 11 hanno offerto più del 20 per cento del loro patrimonio.

Nella categoria di chi ha donato meno, dall’1 al 4,99 per cento delle proprie fortune, figurano anche Marc Zuckerberg e la moglie Priscilla Chan, con la «Chan Zuckerberg Initiative». Una società a responsabilità limitata che gli ha consentito di investire tre miliardi di dollari in un decennio per sconfiggere tutte le malattie entro il 2100, e altri fondi milionari nella riforma dell’immigrazione, negli alloggi, nella giustizia penale e in varie questioni locali, compreso il finanziamento di candidati politici, donazioni e lobbying. Senza dover rinunciare, grazie alla forma giuridica prescelta, al controllo delle azioni di Meta e adottando meno requisiti di trasparenza rispetto a un tradizionale ente no profit. «Dietro questa patina di buonismo si riconosce un’impronta comune: ogni iniziativa “benefica” punta all’implementazione della tecnocrazia su scala globale» conclude Perucchietti. «La figura del moderno filantropo, di cui George Soros è l’emblema quale speculatore che ha cercato di ristrutturare le politiche sociali e globali a proprio uso e consumo, incarna la ragione di queste diseguaglianze e diffonde nell’opinione pubblica l’idea che il benessere può essere elargito solo dall’alto». Alla base dei rigidi dogmi dell’«altruismo efficace», il cui impatto viene valutato da meta-charities come GiveWell, Giving What We Can, c’è l’identificazione di progetti da cui ci si aspetti un ottimo rapporto costo-efficacia, così da massimizzare l’impatto positivo prodotto.

Anche se molte di queste iniziative presentano un esito incerto o scarse probabilità di successo, rispetto ad altre che potrebbero garantire un aiuto certo, ma a un numero inferiore di beneficiari, e che quindi restano al palo. Non a caso, dietro molti di questi benefattori si cela la mentalità di individui abituati a ragionare su modelli informatici e matematici, e ai quali l’altruismo disinteressato è più ignoto dei buchi neri. Tale atteggiamento si rispecchia nel tipo di progetti finanziati, non sempre in modo appunto «disinteressato». Spesso sono cause dedicate alla riduzione del rischio di catastrofi globali, tra cui le pandemie, che potrebbero portare all’estinzione dell’umanità: azzeramento del riscaldamento globale, intelligenza artificiale canaglia, armi biologiche mortali, collisioni di asteroidi, guerre spaziali. Cause che fino a pochi mesi fa hanno folgorato anche il Robin Hood delle criptovalute, Sam Bankman-Fried, prima di essere arrestato e condannato per una truffa colossale. Il suo obiettivo, quando ancora era nella top ten dei «benefattori» miliardari stilata da Chronicle of Philanthropy, era quello di usare la speculazione «per vincere soldi per i perdenti del capitalismo». Così come giurava ai giornalisti di voler dare via fino all’ultimo Bitcoin. Lo ha fatto fino all’ultimo, peccato che con i risparmi rubati ai suoi investitori.

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