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Usa-Iran, che guerra sarebbe



La guerra tra l’alleanza Israele-Usa contro l’Iran c’è già, ma resta, e probabilmente resterà, sempre fuori dai confini iraniani. Del resto, le due nazioni non hanno rapporti diplomatici dal 1980, anno in cui si risolse la crisi degli ostaggi. Oggi uno scontro diretto, con il possibile coinvolgimento anche del Regno Unito, sarebbe un massacro iniziale per le forze di Teheran, che nonostante 575.000 soldati in servizio e i 350.000 della riserva non possiede armi dell’ultima generazione che possano competere con quelle alleate per capacità e tecnologia, ma costringerebbe subito dopo Washington a cercare di evitare a tutti i costi un attacco via terra, pena ricadere in una ennesima guerra infinita impossibile da vincere.

E poi c’è un fatto ineluttabile: Teheran detiene il più grande arsenale di missili balistici del Medio Oriente, in parte a causa dei decenni di sanzioni seguite alla rivoluzione islamica del 1979 e alla crisi degli ostaggi dell’ambasciata americana, che le ha impedito l’acquisto di moderni aerei, ma non di acquistare tecnologia cinese dalla quale evolvere sistemi di produzione nazionale. Che, qualora lanciati in quantità, diventano armi efficaci che vanno intercettate prima del lancio ricercandone le postazioni, le fabbriche e i depositi. Nulla che la Quinta Flotta Usa, la cui ammiraglia è la portaerei Dwight Heisenhower, avrebbe difficoltà a fare, soprattutto perché potrebbe rapidamente essere raggiunta dalla Sesta flotta e dalla Quarta flotta (che staziona attorno al Sudamerica) e dalla Sesta (nel mediterraneo). In tutto oltre 35.000 uomini su una quarantina di navi tra le quali quattro portaerei e sedici incrociatori, e nelle 18 basi presenti nell’area del Golfo Persico tra quelle della Marina e dell’aviazione. Per un totale di circa 350 velivoli d’attacco, contro neppure un centinaio di aerei di Teheran.

Domenica scorsa l’attacco di droni avvenuto in territorio giordano rivendicato dalle milizie irachene appoggiate dall'Iran ha ucciso tre soldati statunitensi e ne ha feriti altri 34. Meno di 24 ore dopo che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha affermato che un gruppo militante sostenuto dall'Iran ha ucciso tre soldati americani e ne ha feriti 34, alcuni dei quali in condizioni critiche, l'Iran ha subito negato il proprio coinvolgimento diretto nell'attacco avvenuto nel nordest della Giordania, vicino al confine con la Siria. Il ministero degli Esteri di Teheran ritiene che le accuse siano infondate ma ha incassato la promessa di ritorsione del presidente Biden. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanaani, ha affermato che la continuazione degli attacchi statunitensi contro la Siria e l'Iraq, nonché la guerra a Gaza, non faranno altro che intensificare il ciclo d’instabilità nella regione. Biden, tuttavia, ha subito incolpato i gruppi sostenuti dall’Iran per l’attacco aereo contro le forze statunitensi, il primo mortale subito dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas, il 7 ottobre scorso. Kanaani ha anche detto che i "gruppi di resistenza" non prendono ordini da Teheran e che “l'Iran non ha alcun legame e non ha nulla a che fare con l'attacco alla base americana”, spiegando: “C'è un conflitto tra le forze americane e i gruppi di resistenza nella regione e questi compiono atti di ritorsione”.

L’attacco costituisce un’importante motivo di escalation della già tesa situazione in Medio Oriente, ma gli analisti militari occidentali sostengono che per ora un attacco americano nei confronti del regime di Teheran sia da escludere, e concordano invece sul fatto che potrebbero verificarsi atti mirati per neutralizzare le cellule responsabili di quanto accaduto domenica 28 gennaio. Non è infatti chiaro, né tantomeno scontato, quali sarebbero le reazioni del mondo arabo qualora gli Usa decidessero di aggredire direttamente la Repubblica islamica. Del resto, la memoria ci suggerisce che Israele ha colpito obiettivi iraniani in Siria per anni, ma senza dissuadere l’Iran dal cambiare linea, e negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno colpito obiettivi legati all’Iran anche al di fuori del suo territorio. A novembre, per esempio, fu colpita una struttura utilizzata non solo da un gruppo sostenuto dall'Iran, ma anche dal Corpo delle Guardie rivoluzionarie iraniane, poiché era evidente il legame tra chi obbediva alla catena gerarchica militare e chi invece agiva in modo indipendente. E poi tutti ricordano l’uccisione del generale Qassem Soleimani avvenuto nel 2020 in Iraq. Certamente c’è la possibilità che l’amministrazione Biden voglia mantenere una posizione prudente mostrando i muscoli ma in modo episodico, lasciando a chi verrà dopo le elezioni di novembre il cerino acceso di gestire una possibile escalation.

Il timore dei missili balistici e del nucleare

Dal punto di vista militare gli Usa potrebbero colpire pesantemente l’Iran, che non dispone di radar antiaerei evoluti, ma non potrebbero invaderlo se non affrontando una guerra lunga e complicata nella quale le speranze di vincere sarebbero minime, stante l’instabilità interna al Paese. Difficile per noi occidentali è anche comprendere la strategia degli Ayatollah: a fronte di problemi di controllo della popolazione dovuti al feroce regime, è evidente un tentativo di mantenere almeno la credibilità interna attuando una politica estera che faccia percepire la sicurezza dei confini. Non a caso Teheran continua sia a sostenere Hamas ed Hezbollah, sia a mostrare una presenza militare nello stretto di Hormuz come nello Yemen; a colpire il Pakistan motivando la persecuzione di terroristi ma contemporaneamente a stringere accordi con Islamabad per creare distensione.

Mostrare alla popolazione di effettuare continue attività militari illude i cittadini che esista un nemico che li minaccia e che il Paese possa reagire a un attacco da parte di Israele e degli Usa, anche se è ormai evidente che la strategia iraniana, fallita, era quella di scatenare attacchi su più fronti, dal Libano a Gaza, dalla Cisgiordania al Golan. Ma mentre i fronti di Cisgiordania e Siria non si sono accesi, ora ci sono episodi in Libano, Iraq e Yemen. In questo quadro rientra anche l’annuncio di ieri di aver lanciato con successo tre satelliti con il razzo a due stadi e propellente liquido Simorgh dallo spazioporto dell’Imam Khomeini, nella provincia rurale di Semnan. La Televisione di Stato ha chiamato i satelliti Mahda, Kayhan-2 e Hatef-1. Il primo servirebbe per la ricerca scientifica, mentre gli altri, della classe dei nano satelliti, pare siano equipaggiati con apparati militari per la navigazione di mezzi aerei, navali e terrestri e per le comunicazioni. Da quanto sappiamo in occidente l’impresa sarebbe riuscita dopo cinque lanci consecutivi falliti che avevano provocato la perdita di personale dell’agenzia spaziale di Teheran.

L’unica preoccupazione degli Usa in questa vicenda è che gli iraniani possano, attraverso queste esperienze, sviluppare un lanciatore balistico intercontinentale nonostante una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite abbia invitato Teheran a non intraprendere alcuna attività che coinvolga missili in grado di trasportare armi nucleari. Anche perché, nel frattempo, l’Iran arricchisce l’uranio avvicinandolo ai livelli sufficienti per diverse bombe atomiche, anche se le agenzie di intelligence stimano che Teheran non abbia iniziato a costruire un’arma nucleare. La memoria ci riporta all’Operazione “Mantide religiosa” del 18 aprile 1988, quando nel golfo Persico la Marina Usa attaccò installazioni petrolifere e navi iraniane come ritorsione al danneggiamento di una Unità navale americana da parte di una mina posata da Teheran. In quegli anni l’Iran aveva ancora in servizio gli F-14 Tomcat ricevuti dagli Usa, e scambiando per uno di questi uno Airbus 300 iraniano che operava il volo Iran Air 655 tra Teheran e Dubai, gli Usa uccisero 290 innocenti lanciando un missile dall’incrociatore classe Ticonderoga “Uss Vincennes”. Ferita, questa, mai completamente rimarginata.

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