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Donald Trump: riuscirà a cambiare l'America con un bis?

L’ex presidente punta dritto al voto del 5 novembre. E nel caso (probabile) che batta Joe Biden, imporrà una decisa sterzata in politica interna come in quella estera. Obiettivo: rilanciare gli Stati Uniti con investimenti pubblici, frenando l’immigrazione e chiudendo i conflitti in Europa e Medio Oriente.

Sente profumo di vittoria, e già s’immagina alla Casa Bianca. Annuncia che sigillerà il confine con il Messico, che porrà fine al conflitto in Ucraina, che risolverà tutti i problemi in Medio Oriente, ed eviterà la Terza guerra mondiale. A 77 anni suonati, Donald Trump è tornato mattatore. E non ha tutti i torti perché nessuno più di lui, oggi, è sulla cresta dell’onda. In base ai sondaggi, del resto, Joe Biden non è un problema: se si votasse domattina, Trump lo batterebbe senza sforzo anche perché gli americani si sono convinti che il presidente democratico sia un leader quantomeno fragile, tanto che 63 elettori su 100 (rilevazione Rasmussen del 15-17 gennaio) lo vedono addirittura come un «puppet», una marionetta manovrata da Barack Obama, l’ex presidente di cui Biden è stato il vice tra il 2009 e il 2016.

Non è più un problema nemmeno Ron DeSantis, il governatore della Florida che era l’unico candidato repubblicano seriamente capace di sfidarlo alle primarie, ma si è appena ritirato dalla corsa. E Nikki Haley, l’ultima concorrente rimasta, non sembra pericolosa. Insomma, da qui al 5 novembre, quando si voterà per il prossimo presidente degli Stati Uniti, Trump davanti a sé ha una sola incognita: la giustizia. Anche se pochi ritengono plausibili condanne, tre tribunali lo stanno processando per reati che in totale potrebbero costargli fino a 44 anni di reclusione (vedere il box a pag. 51). In febbraio, poi, la Corte suprema deciderà se sia stata corretta la decisione dello Stato del Colorado che a fine 2023 - in base a un vecchio emendamento - gli ha vietato la candidatura. Basteranno pochi mesi per capire se Donald saprà superare la gimkana giudiziaria, e se potrà lanciarsi in una «second life» da presidente. Quel che già oggi è certo, in quel caso, è che il sussulto per gli americani e per il mondo sarebbe notevole.

La sinistra estrema, alla «Black lives matter», è già pronta a scontri di piazza anche peggiori di quelli visti sotto il primo mandato trumpiano, ma stavolta alla violenza «antifascista e antirazzista» potrebbe opporsi quella della destra radicale, fedele al suo leader. Rinnegando l’antico motto «Unite we stand», gli Stati Uniti rischierebbero così di spaccarsi in due, come una mela. Ma l’ex presidente ha altre rivoluzioni in testa. Di certo, intende rovesciare le politiche di Biden sull’immigrazione. Negli ultimi quattro anni la Casa Bianca ha smantellato il muro che l’amministrazione repubblicana aveva innalzato lungo il confine con il Messico. Risultato? Alla fine del 2016 si stimava che gli stranieri entrati illegalmente con Obama fossero stati cinque milioni, poi calati a 4,7 nel 2020 per le politiche repressive di Trump. Nel triennio bideniano, però, sono tornati ad aumentare a 8,5 milioni, e alla fine del 2024 supereranno i 12: tutti i sondaggi rivelano che la paura degli americani per l’invasione dei clandestini è alle stelle, ed è sicuro che Trump si rimetterà a costruire il muro.

Molto cambierebbe anche nel governo dell’economia. La Federal reserve prevede che nel 2024 il Pil americano crescerà appena dell’1,4 per cento, il dato più debole dal 2009. Il nuovo-vecchio presidente aumenterebbe la spesa per il suo programma d’investimenti, che ha cambiato solo di titolo: da «Make America great again!» a «Take America back!». Trump spenderebbe centinaia di miliardi di dollari per svecchiare le sempre più fragili infrastrutture del Paese, ma anche nel rafforzamento militare. La sua propensione per la materia, del resto, è nota: non per nulla, uno dei suoi processi riguarda le casse di carte «top secret» che nel gennaio 2021 aveva portato via dalla Casa Bianca, piene d’informazioni su nuovi sistemi d’arma e sulle capacità d’attacco della Cina e di altri Stati «pericolosi» per l’America. Quindi è probabile che, tornato in sella, il «Commander in chief» accrescerebbe l’aggressività contro la Cina di Xi Jinping, che considera il primo e vero nemico dell’America. Arriverebbero così più aiuti militari a Taiwan e alle Filippine, minacciate da Pechino.

Ma sarebbero probabili anche interventi mirati contro l’Iran, che ha approfittato della miopia di Biden per rimettere le mani su otto miliardi di dollari di capitali a suo tempo congelati da Trump, impiegandoli per accelerare il programma nucleare, per finanziare l’attacco di Hamas contro Israele, il 7 ottobre 2023, e adesso per sostenere gli attacchi degli jihadisti Houthi contro le navi occidentali nel Mar Rosso. Alle cronache passa per un guerrafondaio, Trump, ma è certo che l’assassinio mirato del generale iraniano Qasem Soleimani, da lui deciso il 3 gennaio 2020, aveva dato un efficace segnale di fermezza al regime di Teheran - una fermezza che Biden non ha dimostrato - e al tempo stesso aveva agito con precisione chirurgica, senza innescare le pericolose «escalation» belliche di cui è stato capace il suo successore. Basta pensare al disastro dell’invasione russa del Donbass, che quasi due anni fa l’attuale presidente non aveva saputo scongiurare. Da sempre legato a filo doppio con l’Ucraina - e spinto ad appoggiare il governo di Volodymyr Zelensky anche dalle controverse vicende giudiziarie che hanno coinvolto suo figlio Hunter in una serie di oscure trame a cavallo tra Kiev e Washington - Biden è riuscito a ottenere uno dei risultati più disastrosi nella storia americana: l’allineamento tra Russia e Cina.

Non era mai accaduto che Mosca e Pechino si unissero in un «accordo totale di cooperazione economica, strategica e militare» come quello siglato da Vladimir Putin e Xi Jinping proprio mentre stava per partire l’attacco russo contro l’Ucraina. Da allora l’intesa tra le due grandi dittature dell’Eurasia si è ancora ampliata e ha creato un «fronte delle autocrazie globali» contro l’Occidente, di cui fanno parte anche Iran, Corea del Nord, Cuba e Afghanistan, più alcuni pezzi d’Africa dove l’influenza russa e cinese cresce ogni giorno di più. Ben diversa era stata la strategia di Trump. Tra il 2016 e il 2020, da alleato di Israele e amico personale di Benjamin Netanyahu, era riuscito a convincere gli Emirati arabi uniti, il Marocco, il Sudan e il Bahrein a siglare i «Patti di Abramo» con Tel Aviv, e aveva avviato negoziati anche con l’Arabia Saudita. Soprattutto, Trump aveva sempre rassicurato Putin sull’inconsistenza della minaccia della Nato, tenendolo ben lontano da Pechino. Oggi il tycoon potrebbe giocare la sua amicizia con lo Zar per convincerlo a chiudere il conflitto in Ucraina. Potrebbe giocare anche le sue idee sul disimpegno dalla Nato e dall’Europa. Lo scorso 9 gennaio il Commissario europeo Thierry Breton ha rivelato che nel marzo 2020, a Davos, Trump aveva apostrofato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen con parole durissime: «Dovete capire che, anche se doveste finire sotto attacco, noi americani non verremo più in vostro aiuto. E comunque la Nato è morta: tutti la lasceremo, tutti abbandoneremo la Nato».

L’isolazionismo statunitense è un’altra svolta drastica, che una nuova presidenza Trump potrebbe imporre. E non ne uscirebbe nulla di buono per noi europei: la Casa Bianca potrebbe tornare a chiedere ai governi del Vecchio continente di partecipare alle spese della Nato per il 2 per cento a testa, e in questo periodo di crisi nessuno potrebbe farlo. Così l’Alleanza atlantica, inevitabilmente, finirebbe in ritirata. Ognuno per sé, insomma.

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