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La sanità e le lunghe attese per farsi curare



Soffrire di una malattia in Italia significa rivolgersi a ospedali pubblici che però hanno tempi lunghissimi e (spesso) non forniscono i trattamenti necessari. Così, a caro prezzo, si sceglie il settore privato. Oppure si cambia regione, con altrettante costose trasferte. E chi non ha soldi? Aspetta. Un reportage.

«Dovevo scegliere se mettere il piatto in tavola, o andarmi a fare la Tac. Indovini lei che cosa ho preferito». Parla così Simonetta G., 73enne napoletana cui è stato diagnosticato un tumore la scorsa primavera. «Ho la pensione minima, i soldi per andare privatamente non ce li avevo e così mi sono messa in coda all’ospedale. Chissà se mi chiameranno prima o dopo il funerale».

Le parole di Simonetta rappresentano con teatrale amarezza la situazione in cui si trovano ogni giorno migliaia di persone. «Oggi sono tre milioni gli italiani over 65 che, quando devono usufruire di prestazioni sanitarie a pagamento, rinunciano a curarsi» esordisce Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo) che ha commissionato un’indagine sul tema all’Istituto Piepoli. «In media» prosegue Anelli «gli italiani risparmiano il 10 per cento delle proprie entrate per far fronte alle spese sanitarie, ma tanti, il 23 per cento, pur volendolo non riescono a farlo». Ed è così che ci si ritrova - come Simonetta - in un turbinio in cui la salute va in secondo piano.

I dati non lascianodubbi: nel 2023 oltre il 33 per cento degli italiani ha infatti dovuto rinunciare a cure mediche a causa dell’indisponibilità delle strutture sanitarie e delle lunghe liste di attesa. Una tendenza particolarmente evidente - secondo Eurispes - nelle regioni del Sud, dove la percentuale di famiglie che hanno avuto difficoltà economiche relative alle prestazioni sanitarie ha raggiunto il 28,5 per cento e nelle Isole con il 30,5 per cento. Un po’ come Pierpaolo Pierini, siciliano malato di diabete che ha rinunciato a curare il suo carcinoma: «Non ne potevo più. Ho deciso di stare a casa a godermi gli ultimi mesi di vita, perché tanto le cure avrebbero soltanto svuotato le tasche di mia moglie e reso le nostre giornate amare».

Sempre secondo un’analisi dell’Istituto superiore di sanità, un ultra-65enne su quattro ha rinunciato ad almeno una visita medica o a un esame diagnostico di cui avrebbe avuto bisogno per motivi economici. «Alla radice del fenomeno ci sono certamente motivazioni economiche: la spesa privata, messa di tasca propria dai cittadini, oramai supera i 40 miliardi. Soprattutto le fasce più svantaggiate della popolazione non riescono a far fronte alla situazione», sintetizza Anelli.

Sul punto è bene ricordare che l’anno scorso gli italiani hanno speso, in media, 335 euro per ciascun approfondimento specialistico nel settore privato, con importi che vanno dai 117 euro per gli esami del sangue ai 716 euro per l’odontoiatria. Non proprio cifre irrisorie. Che rendono ancora più comprensibili - e allarmanti - i dati della recente indagine commissionata agli istituti mUp Research e Norstat da Facile.it, secondo cui circa 8,3 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi per il portafogli. Di fronte ai costi, il 77 per cento degli intervistati ha utilizzato i propri risparmi e solo il 20 per cento ha potuto usufruire di un’assicurazione sanitaria, mentre alcuni hanno dovuto chiedere sostegno economico ai familiari (15 per cento) e altri ancora si sono rivolti a una banca o società finanziaria (5 per cento).

Più svantaggiate - stando ai dati del Servizio sanitario nazionale - le fasce sociali più deboli (37 per cento), e soprattutto le donne (29 per cento), ma anche chi ha patologie croniche: chi riferisce una diagnosi di malattie come tumori o patologie respiratorie, diabete, o insufficienza renale, nel 28 per cento dei casi dichiara di aver rinunciato alle cure; quota che sale al 33 per cento tra coloro che hanno due o più cronicità.

Ma non c’è solo questo. Altro motivo sono le lunghe liste di attesa per ottenere prestazioni a carico del Servizio sanitario nazionale. In media chi si rivolge al Ssn attende infatti circa 77 giorni, mentre nel settore privato i tempi si riducono moltissimo, arrivando a circa 15 giorni.

«Per quanto riguarda gli anziani, entrano in gioco anche la scarsa mobilità e la difficoltà negli spostamenti, loro e dei caregiver, spiega ancora Anelli. «Infine, tante persone rinunciano alle cure perché non conoscono i propri diritti, per esempio la possibilità in molte zone di rivolgersi alle strutture private a carico del Servizio sanitario regionale, se le liste di attesa nel pubblico sono troppo lunghe, e le opportunità di richiedere aiuti economici». Eppure su questo la legge parla chiaro, dice l’avvocato torinese Sara Negri: «Esiste il diritto alla salute che nel nostro Paese è garantito dalla Costituzione italiana, in particolare dall’articolo 32. Altra questione è poi il diritto di autodeterminarsi in tema di trattamento sanitario. Anche questo è un principio costituzionale autonomo, che va distinto dal diritto alla salute, né deve essere bilanciato con altri diritti, ma tutelato e applicato in maniera piena». Significative anche le implicazioni psicologiche, riflette Andrea Fagiolini, ordinario di Psichiatria all’Università di Siena: «Il benessere emotivo rischia di essere compromesso in modo definitivo. La sensazione di non poter accedere alle cure necessarie può generare un senso di impotenza e frustrazione, ma anche stress, disturbi ansia o depressivi, senso di colpa per non essere in grado di aiutarsi a stare meglio».

Sentimenti che Simonetta affronta ogni giorno: «Se mi sento una cittadina di serie B? Ovviamente. L’unica magra consolazione è che nella mia situazione qui c’è tutto il quartiere. Il mio vicino di casa ha avuto la fortuna di avere una figlia a Milano, e ormai si è trasferito per essere curato. Ma io sono sola, dove devo andare?».

La mobilità sanitaria è un fenomeno sempre più presente, e ha implicazioni complesse. Nell’ultimo anno - sempre secondo l’indagine di Facile.it - oltre 2,4 milioni di persone hanno dovuto cambiare regione per sottoporsi a esami, visite o interventi. Sebbene il fenomeno sia stato rilevato in tutto il Paese, sono le aree del Centro Italia quelle dove la percentuale di chi ha cambiato regione per curarsi è più alta (11,5 per cento rispetto al 7,4 per cento a livello nazionale). Le regioni verso cui ci si è spostati con più frequenza per ricevere cure sono il Lazio (27 per cento), la Lombardia (19 per cento), l’Emilia-Romagna (15 per cento) e il Veneto (11 per cento). Un sistema che ha creato disuguaglianze tra le regioni, con alcune che registrano surplus di bilancio, come la Lombardia, e altre in deficit significativo, come la Calabria e la Campania.

Per questo un grosso beneficio potrebbe arrivare, anche sul fronte sanitario, dall’autonomia differenziata. «La filosofia che ispira la previsione costituzionale sul tema è molto chiara. Una maggiore autonomia può essere chiesta da tutte le regioni che ritengano vi sia per esse un’opportunità nel farsi carico di ulteriori funzioni. Il fatto che ben 14 regioni su 15 ad autonomia ordinaria abbiano manifestato l’intenzione di farlo mi pare indicare che esse intravedono delle opportunità per il proprio sviluppo» spiega non a caso il giurista Giovanni Guzzetta, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico all’Università di Roma Tor Vergata. Insomma, nessun ulteriore «abbandono» per il Sud. Anzi, secondo il costituzionalista si apre una sfida che anche le aree più svantaggiate «dovrebbero cogliere, scommettendo sulle proprie capacità di sviluppo autopropulsivo. Penso ai settori del governo del territorio, della formazione professionale, della valorizzazione dei beni culturali, dei servizi alla persona». E, appunto, della sanità. «La sfida» spiega Guzzetta «è che si inneschi un circolo virtuoso di maggiore razionalizzazione e efficienza. Politiche più vicine ai cittadini e più controllabili dai cittadini, valorizzazione della capacità di intraprendere strade ritagliate sulle effettive esigenze dei territori. Efficienza e responsabilità devono diventare le parole chiave». Un punto che tocca anche l’emigrazione sanitaria: «Bisogna vincere la rassegnazione che tutto rimarrà sempre uguale e che ci sono cittadini condannati a essere figli di un dio minore. Ma per far ciò ci vogliono strumenti, coraggio e orgoglio». Del resto, investire nella sanità pubblica conviene, sia dal punto di vista sociale sia in termini di ritorno economico. «Ogni euro destinato alla spesa sanitaria» aggiunge Anelli «produce in media un valore di 1,84 euro, cioè quasi il doppio dell’investimento iniziale. E l’indotto genera nuova occupazione, raddoppiando i posti di lavoro». n

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