Censure immaginarie e svendite vere
Ho trovato ipocriti gli allarmi della categoria a cui appartengo di fronte alle parole di Giorgia Meloni sulla cessione la cessione di alcune quote azionarie nelle partecipazioni statali. Nulla in confronto agli anni Novanta quando i governi Prodi e D’Alema misero sul mercato asset fondamentali realizzando la più grande svendita di beni dello Stato.
Nei miei quasi trent’anni da direttore sono stato licenziato due volte e sempre per questioni politiche. La prima volta perché mi ero permesso di raccontare le pressioni di Oscar Luigi Scalfaro sulla Consulta, al fine di far cambiare opinione ai giudici della Corte sull’ammissibilità di un referendum. La seconda perché avevo osato pubblicare le notizie che riguardavano i procedimenti penali a carico dei genitori di Matteo Renzi, a quei tempi presidente del Consiglio. Nonostante fosse evidente che le rimozioni dalla direzione del Tempo e di Libero fossero dovute a questioni politiche e non ad altro, nessuno fiatò. Non ci furono comunicati del sindacato giornalisti per condannare l’attacco alla libertà di stampa, né forze politiche che organizzarono sit-in di protesta: sia il primo licenziamento che il secondo, avvenuti a quasi vent’anni di distanza, passarono senza destare stupore, senza che nessun «indignato speciale» aprisse bocca.
Ricordo i fatti non per chiedere un tardivo risarcimento morale per l’ingiusta rimozione, né per atteggiarmi a vittima fuori tempo massimo, ma semplicemente per dire che ho trovato ipocriti gli allarmi della settimana scorsa, quando la categoria a cui appartengo si è sollevata di fronte alle parole di Giorgia Meloni. Il presidente del Consiglio, come è noto, ha criticato Repubblica per aver annunciato la cessione di alcune quote azionarie nelle partecipazioni statali con un grande e allarmato titolo: Italia in vendita.
In realtà, non c’è nessuna vendita di asset strategici, ma solo la cessione di alcuni pacchetti di minoranza detenuti dallo Stato nelle Poste e in altre aziende. Insomma, nulla di preoccupante, ma una mossa che però è stata severamente commentata dal quotidiano di casa Agnelli. Alla premier è venuto facile, in conferenza stampa, replicare che l’accusa di svendere l’Italia - questo era il senso dell’articolo - andava rispedita al mittente, dato che proveniva da un giornale posseduto da azionisti che non solo avevano deciso di spostare la propria sede fiscale all’estero, ma avevano venduto l’azienda ai francesi. Il capo del governo non aveva costretto i proprietari della testata a licenziare il direttore, ma si era permesso semplicemente di criticare la scelta del giornale.
Tuttavia, le frasi sono state usate per creare un caso politico, accusando il presidente del Consiglio di voler imbavagliare la stampa. Un’operazione ipocrita, con tanto di interviste a esponenti del sindacato giornalisti (si è scomodato perfino quello europeo) e a pensionati di pronto intervento come Giuliano Amato, sempre disponibili a commentare pur di guadagnare una ribalta. I problemi della stampa, e di Repubblica in particolare, sono altri e non hanno nulla a che fare con il presidente del Consiglio. Non è Meloni che minaccia il futuro dei giornali, ma è il calo costante delle tirature e la conseguente chiusura di molte edicole, eppure tutto ciò non sembra impensierire le redazioni, che soprattutto nei giornali che pendono a sinistra mettono in scena il teatrino della censura da almeno trent’anni. Il bavaglio è lo stesso argomento usato contro Berlusconi, anche se a nessuno, dal 1994 fino alla sua morte, è stato mai impedito di criticarlo e anche ferocemente. Semmai la censura certi giornali se la impongono da soli. Infatti, tornando alla questione che ha suscitato la reazione di Giorgia Meloni, ovvero la vendita di alcune quote delle aziende statali, quelle decise dall’attuale governo sono poca cosa.
Ma Carlo Cambi, a pagina 32, ricorda che negli anni Novanta i governi Prodi e D’Alema decisero di mettere sul mercato asset fondamentali come banche e società di telecomunicazione, realizzando la più grande svendita di beni dello Stato. Guarda caso, molte di quelle partecipazioni finirono nelle mani di De Benedetti e degli Agnelli: il primo è l’ex editore di Repubblica, mentre i secondi sono gli attuali. A quei tempi tuttavia, il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari si guardò bene dal titolare «Italia in svendita». E di parlare di censura.