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Le trappole per le aziende italiane a Bruxelles

Dall’ex Ilva al socio per la neonata compagnia Ita, fino al futuro di Tim. Gli «avversari» dell’Italia invocano l’Antitrust europeo convinti di un arbitraggio favorevole, viste le partite aperte su Mes e Patto di stabilità. Così va avanti un’analisi minuziosa dei nostri dossier. Ma il tempo passa, e questo certo non ci avvantaggia.

Sembra che ai piani alti della Dgcomp, l’Antitrust europeo, non sia bastato avere dettagliate informazioni sui menu che vengono serviti a bordo e risposte alle altre centinaia di domande poste a Ita, pardon, al ministero dell’Economia che controlla ancora la compagnia aerea nata dalle ceneri di Alitalia, e a Lufthansa, il colosso tedesco dei cieli che ha formulato un’offerta per acquisirla. Quella proposta, 325 milioni per il 41 per cento, accettata dal Tesoro, resta in sospeso dal mese di maggio del 2023, perché Bruxelles continua a porre quesiti su quesiti ai vertici dei due vettori. Ci sono «slot», rotte e interi mercati da ripensare, insomma serviranno almeno altri tre mesi - se tutto andrà bene arriveremo a giugno - per capire se l’Europa darà il via libera all’operazione. Osteggiata da Air France, certo, ma anche da una gran parte delle altre compagnie che non vedono l’ora di accaparrarsi i permessi di atterrare e decollare su alcuni aeroporti ritenuti strategici. Sempre sull’Antitrust Ue ha puntato le sue carte Vivendi. Il gruppo transalpino che vanta una partecipazione di maggioranza relativa in Tim (23,75 per cento), e da tempo ha espresso il suo dissenso rispetto all’operazione di cessione della rete al fondo Kkr. In realtà la cosiddetta NetCo (l’infrastruttura per i collegamenti Tlc) verrebbe acquisita da una nuova società che comprende oltre al private equity americano anche il Tesoro (al 20 per cento) e F2i, il fondo infrastrutturale, con il 10 per cento. Per questo la media-company della famiglia Bolloré ha scritto all’authority per la concorrenza di Bruxelles chiedendo chiarimenti sul ruolo del governo italiano nell’affare.

E in una prospettiva di medio periodo, anche la partita meno delineata, quella che vede contrapposte l’agenzia pubblica per gli investimenti Invitalia (controllata dal Tesoro) e ArcelorMittal sulle acciaierie dell’ex Ilva, parte da una certezza: la necessità di dover passare per le forche caudine della commissione che vigila sulla concorrenza in Europa, guidata dalla danese Margrethe Vestager. Facciamo chiarezza: a Taranto è arrivato un commissario al posto di Lucia Morselli, l’ad voluto dagli indiani. E quindi formalmente è in atto una nuova gestione. Ma che Arcelor si faccia da parte senza batter ciglio è difficile da credere. Intanto il ministro per le Imprese Adolfo Urso ha fatto sapere di aver avuto le prime interlocuzioni con la Vestager per il prestito ponte da 320 milioni di euro e di essere sostanzialmente d’accordo con le sue richieste: il finanziamento pubblico passa se si dimostra che poi l’azienda, una volta risanata, sarà in grado di rimborsarlo. Che, se vogliamo, è anche una garanzia per il futuro dell’acciaio in Italia. Il punto è che i 320 milioni rischiano di essere un «antipasto». Secondo le stime dei sindacati il fabbisogno minimo per tenere in piedi e dare margini di rilancio al sito di Taranto non si allontana molto dal miliardo di euro. Insomma, la trattativa con Bruxelles è destinata ad andare avanti.

Intendiamoci. Che l’Antitrust europeo abbia un ruolo cruciale per i destini dell’industria e dell’economia mondiale non è certo una novità. Basti ricordare che buona parte dell’autorevolezza dell’ex premier Mario Monti gli deriva dall’impegno come «mister anti-concorrenza» a Bruxelles (1999 al 2004) e dalla celebre multa da mezzo miliardo comminata a Microsoft nel 2004 per abuso di posizione dominante del sistema operativo Windows. Ma è altrettanto vero che avere così tante partite in bilico in settori strategici come trasporto aereo, telecomunicazioni e siderurgia è una peculiarità che il governo italiano si trova ad affrontare. Perché al di là del merito e dell’esito finale delle indagini su tutte queste vicende, il fattore tempo è decisivo. Prendiamo Ita. La scelta della Dgcomp, la direzione generale della Concorrenza, di passare alla «fase due (si aspettava una decisione entro la fine del 2023) ha fatto saltare la programmazione congiunta per il periodo estivo, quello notoriamente più profittevole per le compagnie aeree. E rimandato sine die i piani di investimento: complessivamente Lufthansa dovrebbe mettere sul piatto 830 milioni di euro. Per non parlare dei danni causati alle strategie del presidente Antonino Turicchi che si trova in mezzo al guado tra le due alleanze dei cieli. Ita oggi fa ancora parte di SkyTeam, in compagnia di Air France e Delta, mentre Lufthansa tira le fila dell’altra intesa tra le compagnie, Star Alliance. Avere dei soci che siano ben consapevoli del fatto che si sta per passare con i concorrenti è la situazione peggiore che si possa immaginare.

Infatti francesi e americani, da quasi un anno, hanno eliminato i codici Ita dai loro biglietti. Si tratta dei cosiddetti accordi reciproci di «codeshare», che garantiscono ai vettori una percentuale sulla vendita dei biglietti, un inconveniente che per Ita vale mancati incassi per non meno 100 milioni all’anno. Soldi, tanti, che non entrano in azienda. Quindi, pur volendo essere ottimisti e dando per scontato che alla fine il via libera dell’Europa arriverà, c’è da chiedersi, a quale prezzo? Lo stesso discorso vale per Tim. Kkr è un fondo di private equity dotato di immense disponibilità. Ma per finanziare un’operazione da poco più di 20 miliardi di euro ha fatto ricorso a un prestito bancario che copre circa il 50 per cento dell’affare. La chiusura dell’operazione è prevista per l’estate. Ed eventuali slittamenti rappresenterebbero un problema. Perché il tempo è denaro. Lo è in generale per la finanza e ancor di più per un fondo che seppur tra i più strutturati e «pazienti» al mondo fa del ritorno finale sui singoli affari la sua stella polare. Questo lo sanno bene anche a Bruxelles. Tant’è che, per la prima volta dopo 27 anni, si è deciso di aggiornare le regole antitrust adeguandole alle nuove realtà in base ad alcuni principi che tengono conto anche del grado di innovazione e delle peculiarità geografiche dell’operazione sotto analisi.

Ci si augura che le nuove norme possano portare in futuro a un’accelerazione dei processi decisionali. Intanto, questa è la situazione con cui il governo italiano deve fare i conti: operazioni perfezionate a maggio 2023 e che a un anno di distanza sono ancora sospese. E nelle more si sta decidendo il futuro di un Europa a cui, comunque la si pensi, serve un cambio di passo. In gioco ci sono partite fondamentali, quasi tutte legate tra loro, che partono dal Mes, arrivano al patto di Stabilità e si chiudono con l’Unione bancaria. Solo per restare sulle questioni economiche. Il tira e molla sul Meccanismo di stabilità è arcinoto: a fine 2023 il Parlamento ha detto no al fondo salva-Stati (e banche) bloccando di fatto il meccanismo messo su dall’Europa per venire in soccorso (in cambio di alcune condizionalità) ai Paesi e agli istituti di credito in difficoltà.

Tralasciando il merito, il Mes è diventato soprattutto una questione politica, e ancora adesso, a settimane alterne, c’è un membro della Commissione che prende la parola, ribadisce l’importanza del fondo e si augura che l’Italia faccia passi avanti. L’ultima in ordine cronologico è stata la commissaria europea per i Servizi e i mercati finanziari, l’irlandese Mairead McGuinness. «A volte bisogna ripetere le stesse cose, per far capire che non abbiamo cambiato idea sull’importanza dell’Unione bancaria» ha sottolineato pochi giorni fa, «è deplorevole che il Mes, un elemento fondamentale dell’unione bancaria, non sia ancora in atto. È stato ratificato in tutti i parlamenti nazionali tranne uno e questo testimonia l’impegno dei Paesi dell’area euro nel garantire che i cittadini e le piccole imprese siano protetti in una crisi del credito». Toni da ultimatum più che da appello.

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