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Giovani: la generazione lacerata



Si annoiano, si puniscono con tagli e disordini alimentari, sfogano il loro disagio nella violenza. Passano il tempo sui social, ma non sanno socializzare. Fuggono dalla realtà e dal futuro a costo di abusare di droghe. Non sono deboli, ma fragili. Inchiesta sul grande enigma dei nostri ragazzi.


Fragili, non deboli. Incerti e consapevoli, condannati a una competizione continua. Disillusi e pessimisti. Senza redenzione né pentimento. La Generazione Z è un grande enigma. Si annoiano mortalmente. Racconta una ragazza di 19 anni: «Quando vado a ballare non mi diverto, se non mi faccio». Si fanno tutti, genitori non illudetevi: funghi, Md, popper, anfetamine e anche il vecchio Lsd. E quelli che non usano (molto) alcol e sostanze, si drogano con i farmaci: Xanax, Rivotril, Subutex, ossicodone, barbiturici (e li rivendono per lo sballo). Si comprano su Telegram, si rubano nei bagni di casa, li prescrivono solerti psichiatri. Questa è la prima generazione che ha sdoganato la psichiatria. Ricette corpose (il litio sembra essere la nuova manna nel deserto dell’adolescenza) e diagnosi spesso uguali: «Bipolari». Parola inflazionata: «Sembra che siano tutti bipolari» afferma Gianna Autullo, psicoterapeuta presso la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli. «C’è un ricorso al farmaco immediato, si inseguono i sintomi senza capire davvero cosa c’è alla base. Ci sono condizioni in cui serve, ma penso che sia una volta su cento, rispetto a quello che viene dato. Un tempo la psichiatria cercava di capire il fenomeno, oggi pensano solo a farli stare calmi».

La malattia mentale è l’immensa (e taciuta) piaga. Nove milioni di adolescenti in Europa soffrono di problemi di depressione, ansia, disturbi comportamentali e alimentari. Una mamma con la figlia in cura da tempo si interroga: «Non le manca nulla, eppure più di una volta mi ha detto che il suo unico desiderio era morire. Negli infiniti giri tra centri e comunità, ho visto la grande disperazione. Mentre aspettavamo ore nei Pronto soccorso arrivavano ragazze con tagli così profondi da essere ricuciti con 80 punti».

Sono divorati dall’ansia, è il loro male oscuro, li rosicchia dentro. E sono ossessionati dall’idea di dover recuperare i due anni persi per la pandemia. Il tempo gli sfugge e devono rincorrerlo come il Bianconiglio, consapevoli di non potersi fermare, perché il futuro è un immenso buco nero. «Voglio lavorare nella finanza, ma a 23 anni se non hai una laurea, due master, valide esperienze di lavoro, non ti assumono. Non abbiamo solo paura del domani, ma anche che qualcun altro sia più bravo e veloce. Mentre tu rimani indietro» dice Giulio, 22 anni, milanese. Pensano ossessivamente a quello che potranno diventare e ai soldi che devono guadagnare. Racconta un ventenne romano: «Siamo preoccupati. Parliamo solo di cosa fare per emergere da una situazione sempre più incerta. Ne discutiamo per ore, ma alla fine non viene fuori niente. Vediamo che gli anni volano e noi restiamo ingabbiati a fare i camerieri per 50 euro a sera in nero. Siamo sempre poveri, altro che risparmiare per il mutuo e la casa. Con quei soldi ci compriamo lo sballo del fine settimana. Lavoriamo per pagarci la coca e la ketamina. Si mischiano insieme. Sono queste le sostanze più usate. Arrivano al cervello, il corpo si distacca. Così non pensi. La droga non serve per divertirci, ma per evadere da questa vita che non reggiamo».

Le canne sono «vintage», dicono, roba da boomer. Se le fanno a 14 anni e poi velocemente passano alla cocaina: «La coca è la droga della nostra generazione. Ne gira tantissima, è ovunque. Con 50 euro fai serata in due. La cosa impressionante è che viene percepita come normale. Vedo i miei amici “pippare” con una leggerezza totale. Avanti e indietro dal bagno, dicendo: “Vado a farmi un riacchiappino”» racconta Federico, 19 anni. Cercano di scappare da dolori che non sanno come affrontare. Rabbia e rassegnazione. «D’altronde sono dieci anni che ci ripetono che qui manca il lavoro, non ci sono prospettive. Ma se vieni dalla periferia dove vai? Non all’università, figuriamoci all’estero. La parola futuro non esiste. Noi al massimo ci domandiamo dove saremo tra cinque anni» ammette il 21enne Pietro. Il futuro fa più paura della morte, dicono.

Secondo il Rapporto annuale sulla felicità nel mondo (World Happiness Report 2024) a vent’anni arriva «la crisi di mezz’età». I figli sono meno felici dei genitori. Non era mai successo. È un cambiamento storico. «Essere felici ormai è una prova di coraggio. Noi non siamo felici e c’è un orgoglio a non esserlo. Non credo che prima fossero appagati, ma esisteva un sistema che portava a raggiungere dei traguardi. I giovani non possono più imitare i genitori, questo è il vero smarrimento, che li obbliga a camminare nel buio, a trovare altre vie, a smantellare quello che c’era» osserva la giovane scrittrice Greta Olivo, che ha esordito con Spilli (Einaudi). «Rispetto a noi trentenni il loro approccio alla sessualità è diverso. Sono pieni di definizioni, questioni che noi ignoravamo. Sanno tutto sulla violenza di genere, sul consenso. Ma, a differenza nostra, la consapevolezza porta a una maggiore paura del contatto. Questa è la generazione cresciuta in lockdown. Si sentono perduti e sono tutti in terapia».

Parla una ragazza di 17 anni: «Su dieci amici, sette dicono di essere fluidi. Io non capisco come si possa fare sesso con ragazzi e ragazze, ma loro mi definiscono una “chiusona”. Oggi si fa l’amore con l’anima, non con i corpi». Stefano Rossi, psicopedagogista, è uno dei massimi esperti di adolescenza: «Queste fragilità emotive colpiscono un numero sempre più alto di adolescenti, che ieri crescevano in una società verticale, con valori chiari. Oggi abitano una società orizzontale, prestazionale. Un’estenuante sfida ai cento metri, a chi arriva primo». Tutto è performance come racconta Sofia, 21 anni: «Anche nell’amore siamo competitivi, razionali. La grande paura è di non essere nessuno, di rimanere soli dietro a uno schermo e alla fine non ci si innamora mai veramente». Continua Rossi: «Sono assediati dal senso di inadeguatezza, che è una sorta di vergogna prestazionale. Non essere abbastanza ricco, né popolare. Accecati dall’idolo d’oro del desiderio, non si interrogano. In cielo non c’è più Dio, ma solo l’Io». Sui social bisogna «flexare», ostentare. La società della prestazione si divide inesorabile tra winner e colpevoli loser. Da qui scatta la vergogna, il sentimento della Gen Z. «Sono in fuga. Il ritiro sociale aumenta, l’abbandono scolastico è spaventoso. Chi molla lo fa per proteggersi dall’angoscia di essere l’unico che non ce la fa, che rimane indietro. Gli insegnanti sono nella tempesta, i genitori vagano nella nebbia. Le loro ali sono le più fragili di sempre, gravate dal peso delle aspettative. Noi dovremmo essere il vento sotto quelle ali e invece siamo la società del naufragio» conclude.

Cosimo, 21 anni, calabrese, laurea con lode in Economia e commercio a La Sapienza di Roma, è iscritto al master: «Siamo smarriti. Più vado avanti, più sento che non basta mai, devi fare sempre qualcos’altro. E intanto ti sembra di non arrivare da nessuna parte. Siamo in un loop senza fine». Come criceti sulla ruota, rassegnati, vivono in un deserto dei tartari. I pestaggi fuori dalle scuole (anche quelle «bene») sono all’ordine del giorno, pure tra le ragazze, così le violenze contro gli animali. Settimane fa una quindicenne e una quattordicenne vicino a Salò hanno litigato alla fermata dell’autobus per un coetaneo. Una ha accoltellato l’altra, ricoverata e gravissima. I compagni intorno le incitavano, mentre riprendevano per postare il video. Si muore a Roma di notte per una sigaretta negata, a Torino ci sono state aggressioni con il machete. Pugni, spinte, sputi, insulti, senza un vero motivo. «Una volta almeno si andava allo stadio a sfogare la rabbia. Ora i quattordicenni non giocano neanche a calcetto con gli amici. Stanno sulla “Play”, collegati e soli» racconta Lorenzo, 20 anni.

«È paradossale: sono la generazione con più relazioni in termini di contatti, ma anche quella che meno riesce a sfruttare il potere della socialità umana. La socialità digitale, al contrario di quella fisica, è esclusiva: si cercano gli uguali per evitare i conflitti, che non sono capaci di gestire» spiega Giuseppe Riva, docente di Psicologia della comunicazione all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove dirige lo Humane Technology Lab, il Laboratorio d’Ateneo che analizza l’impatto della tecnologia sulla dimensione umana. «Non sanno cosa vogliono, non c’è progettualità. Non è facile per loro uscire dal quotidiano e vedere un futuro che si basa su una speranza. C’è una mancanza di modelli o forse ce ne sono troppi, ma se mi identifico in un concetto non mi sentirò mai adeguato. Non sanno più sognare. Il sogno non è un’opzione, ma un rischio che non possono concedersi il lusso di correre. Se sbagliano e cadono sanno che non avranno una seconda possibilità. Ogni delusione diventa qualcosa di radicale».

Alla disperata ricerca di identità, inseguono parametri irraggiungibili. Le femmine si tagliano per punirsi. I maschi invece bevono (ma anche le ragazze non scherzano). Sono i loro ansiolitici. Come un mantra ripetono: «L’ansia mi divora, vado in mille pezzi, non credo in me». Il futuro è un eterno presente. Se non affronti il reale non cresci mai e la conseguenza è la solitudine, la rabbia, o situazione estreme come il suicidio. Secondo i dati dell’osservatorio della Fondazione Brf, Istituto per la Ricerca scientifica in psichiatria e neuroscienze, nel 2023, nella fascia d’età 12-19 anni, tra tentati suicidi e suicidi, i casi sono stati 82. Spiega il professor Armando Piccinni, neuropsichiatra e presidente della Fondazione: «Questi non sono più campanelli d’allarme, ma sirene. La pandemia è stato un fattore estremamente importante. Ora si è aggiunta la guerra. Una condizione di instabilità, di timore e poi l’aumento dei costi, la perdita del lavoro. I ragazzi devono affrontare con le armi spuntate un mondo nuovo che li spaventa. Poveri alberelli alti e magri, con questi venti contrari che soffiano da tante direzioni. Sono sbattuti, sfilacciati da una società che non hanno scelto».

Oggi il suicidio è la seconda causa di morte degli adolescenti. «Dal 2021 c’è stato un aumento costante, ma mettendo a confronto gli ultimi dati Istat con i nostri abbiamo capito che c’è un divario. Molti suicidi vengono nascosti, etichettati come incidenti, lo stigma ancora esiste. Il triste paradosso è che il picco è luglio e agosto, nella stagione della spensieratezza». Ma quale spensieratezza: «Siamo una generazione che ha tutto, eppure non ha niente» riflette Filippo, 21 anni, universitario.

I nativi digitali, se nel mondo reale arrancano, in quello virtuale hanno una marcia in più rispetto alle generazioni precedenti: «Nel lavoro arrivano prima di noi Millennials, ma senza il supporto della tecnologia si sentono persi» racconta Francesco, 24 anni, attivo nel volontariato cattolico. «Ho accompagnato gruppi di adolescenti nelle missioni in Perù. Chi partecipava doveva impegnarsi, staccarsi dai cellulari. In questo contesto di riflessione, dopo il prevedibile panico iniziale, si sono adattati benissimo. Stare costantemente online è stressante anche per loro». Martino, 15 anni, frequenta un liceo classico a Torino: «Essere sempre connessi ti cambia. Fa stare male. Un tempo i bulli ti perseguitavano solo a scuola, oggi torni a casa e sono ancora lì a tormentarti sul cellulare. Diventa una sofferenza senza via d’uscita. Sei continuamente giudicato». Secondo Telefono Azzurro un ragazzo su tre vorrebbe l’aiuto di un esperto di salute mentale, ma si vergogna a chiederlo. Esiste un denominatore comune, si domanda Lorenza Ghinelli, scrittrice e direttrice didattica del Master in Tecniche di narrazione della Scuola Holden: «In larga parte un disagio psichico che la società non investendo sulla salute mentale tende a colpevolizzare, scaricandolo sull’individuo. È impossibile essere sani in un mondo guasto. Ma questi ragazzi resistono. Hanno ancora, e nonostante tutto, la capacità di immaginare, di desiderare».

In un caffè ad Amsterdam Alessandro, 20 anni, riflette: «La nostra identità è legata a quello che siamo nel mondo virtuale. Sappiamo come apparire, ma non riusciamo ad approfondire. Restiamo sempre in superficie. Prevale la cultura del party: sballarsi il fine settimana e poi rientrare in gabbia. I miei coetanei vivono per Instagram, li incontri nei viaggi alternativi, negli ostelli in Marocco a fumare, hippy per sette giorni e poi tornano a fare i consulenti in Deloitte. Io non voglio finire in questo sistema, che ci stritola. Siamo una generazione di disillusi. La nostra priorità è sopravvivere, non vivere».

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