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ONG, l'inchiesta affondata

ONG, l'inchiesta affondata

Dopo anni di indagini, 50 mila ore di intercettazioni, spese per milioni di euro e agenti sotto copertura, il processo a chi portava i clandestini in Italia è finito in una bolla di sapone. Ecco com’è successo. E un audio esclusivo con il responsabile di Save the children, che conferma la volontà di non collaborare con le autorità italiane nell’individuazione di scafisti o trafficanti.


AUDIO: Il fondatore dell’Imi, Cristian Ricci, che era a bordo di Vos Hestia, ha consegnato a Panorama la registrazione (cliccabile in alto in questa pagina) di un colloquio con il responsabile di Save the children, che conferma la volontà di non collaborare con le autorità italiane nell’individuazione di scafisti o trafficanti. Ricci chiedeva se è «importante trovare prove sui facilitatori» dell’immigrazione clandestina come richiesto da polizia e Guardia costiera. «È meglio di no» rispondeva il rappresentante della Ong «la nostra è una prospettiva umanitaria». Ricci è stato contattato qualche mese fa da Trapani e voleva consegnare l’audio, ma poi non è mai stato chiamato in aula.Nella requisitoria la Procura non considera un reato la mancata collaborazione con la polizia. Ricci ribadisce a Panorama: «Tutti sapevano dove eravamo con la nave, pure i trafficanti, che di conseguenza facevano partire i gommoni. Non c’era bisogno di un contatto diretto. Spesso non si rispondeva a un Sos, ma ci si piazzava davanti alla Libia. Bastava aspettare e arrivavano i migranti».

Ecco il racconto del processo a chi portava i clandestini in Italia,
finito in un bolla di sapone

Darius Begui, il comandate di nave Juventa degli estremisti dell’accoglienza tedeschi, si presentava alle udienze della madre di tutti i processi alle Ong di Trapani in ciabatte e canottiera. Il 19 aprile scorso, al giudice per l’udienza preliminare sono bastati 15 minuti per affondare l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina perché «il fatto non sussiste». Begui ha lasciato le sue ciabatte all’ingresso del Palazzo di giustizia di Trapani e un’altra sua sodale, dopo aver scavalcato il cancello, si è messa a urinare per marcare il territorio in segno di vittoria. Dopo otto anni di inchiesta e processo, 50 mila ore di intercettazioni, spese per tre milioni di euro, un agente sotto copertura a bordo di una nave delle Ong, filmati, foto e testimonianze che sembravano dimostrare collusioni con scafisti e trafficanti, la grande inchiesta è colata a picco. I dieci imputati rimasti della piccola Ong tedesca Jugend Rettet e di colossi umanitari come Medici senza frontiere e Save the Children parlano «di accuse ridicole e infondate». Difficile che ci siano risultati clamorosi dai rivoli della grande inchiesta, che per decisione della Cassazione, è stata spezzettata in procedimenti presso altre procure dove erano avvenuti gli sbarchi negli anni del boom, 2016-2017.

A Vibo Valentia, in Calabria, si è arrivati all’udienza preliminare, a Palermo l’indirizzo è quello dell’archiviazione. Altri filoni sono aperti a Ragusa e Castrovillari, sempre in Calabria. Per capire come il processo sia evaporato in una bolla di sapone Panorama ha letto le 17 pagine di requisitoria del procuratore aggiunto, Maurizio Agnello, che aveva ereditato il delicato procedimento. Il 28 febbraio, dopo due anni di udienza preliminare «una delle più lunghe e complesse dalla storia giudiziaria italiana», la stessa accusa affonda l’inchiesta individuando testimoni poco attendibili, prove non sufficienti e il via libera della Guardia costiera alle Ong. La Procura chiede il «non luogo a procedere», spiegando in maniera un po’ sorprendente che, «pur avendo l’attività degli imputati oggettivamente agevolato l’ingresso di cittadini non appartenenti all’Ue sul territorio dello Stato, questa non appare frutto della loro volontà di aggirare la normativa in tema di immigrazione». Il caso è sempre stato ad alta tensione politica, a tal punto che su richiesta delle Ong viene «concessa la presenza in quest’aula di “osservatori internazionali”, come se ci trovassimo di fronte a un tribunale speciale pronto a dar vita a un processo di Norimberga». Il procuratore aggiunto ricorda che la Corte di Cassazione, sul sequestro di nave Juventa, oggi ridotta a una carcassa, «riteneva si fossero verificate “consegne concordate di migranti”: non si sarebbe trattato di operazioni di soccorso in mare , ma del trasbordo di migranti dai barchini degli scafisti alle navi delle Ong».

Nonostante questa premessa l’accusa demolisce i pilastri dell’inchiesta che riguardano Juventa, nave Vos Hestia, noleggiata da Save the Children, e Vos Prudence utilizzata da Medici senza frontiere. Testimoni chiave come Pietro Gallo e Lucio Montanino, della Imi security service, ingaggiata dall’armatore olandese di Vos Hestia, diventano inattendibili dopo aver denunciato che «le Ong sarebbero entrate in contatto con i trafficanti di uomini». Gallo ridimensiona le accuse sostenendo addirittura che «fosse sostanzialmente una sua deduzione» si legge nella carte.

Montanino non arretra e conferma «di ricordare perfettamente due barchini legati fra loro con due persone a bordo che dalla Juventa facevano rotta (di rientro) verso la Libia». Però sbaglia il mese, non «il 10 ottobre 2016», ma in realtà settembre. Il vero nodo dell’attendibilità è che il personale dell’Imi, secondo Agnello, aveva interesse «a denunciare opache modalità operative delle Ong, per poi spendere tale loro iniziativa con un leader politico fortemente interessato alle politiche migratorie (Matteo Salvini, ndr) al fine di ricavarne un guadagno sotto forma di un posto di lavoro prestigioso e ben retribuito, tale da poter riscattare il loro allontanamento dalla Polizia di Stato». Montanino, disgustato dalla fine del processo, dichiara a Panorama di essere «andato in pensione dalla polizia dopo 27 anni. Non sono stato allontanato. Confermo quello che ho visto e per l’errore fra settembre e ottobre, tenendo conto che è passato tanto tempo, penso sia una svista comprensibile». Il fondatore dell’Imi, Cristian Ricci, che era pure a bordo di Vos Hestia, consegna a Panorama la registrazione di un colloquio con il responsabile di Save the Children, che conferma la volontà di non collaborare con le autorità italiane nell’individuazione di scafisti o trafficanti.

Ricci chiedeva se è «importante trovare prove sui facilitatori» dell’immigrazione clandestina come richiesto da polizia e Guardia costiera. «È meglio di no» rispondeva il rappresentante della Ong «la nostra è una prospettiva umanitaria». Ricci è stato contattato qualche mese fa da Trapani e voleva consegnare l’audio, ma poi non è mai stato chiamato in aula. Nella requisitoria la Procura non considera un reato la mancata collaborazione con la polizia. Ricci ribadisce a Panorama: «Tutti sapevano dove eravamo con la nave, pure i trafficanti, che di conseguenza facevano partire i gommoni. Non c’era bisogno di un contatto diretto. Spesso non si rispondeva a un Sos, ma ci si piazzava davanti alla Libia. Bastava aspettare e arrivavano i migranti». Foto e relazioni dell’agente sotto copertura del Servizio centrale operativo della polizia a bordo di nave Vos Hestia non vengono considerate prove definitive. Pure il famoso barchino con la sigla «KK», svuotato dai migranti, sarebbe stato trainato verso nord, in direzione opposta rispetto alle coste libiche e non rimandato ai trafficanti.

Neppure l’immagine dei trafficanti del clan libico Dabbashi, sotto bordo di una delle nave delle Ong, viene presa in seria considerazione. «In definitiva, rimane un grande dubbio (o addirittura non risulta per niente provato) circa l’effettiva presenza di scafisti che abbiano accompagnato i migranti e poi fatto rientro verso le coste libiche» sostiene il procuratore aggiunto. Maurizio Debanne, capo ufficio stampa di Msf a Roma, risponde a Panorama augurandosi che non sia «mai più sostenibile in nessun tribunale l’incriminazione del soccorso civile come favoreggiamento dell’immigrazione irregolare». E punta il dito contro le «norme che ostacolano l’azione delle Ong in mare e sottopongono sistematicamente le loro navi a ingiustificati fermi amministrativi, spesso motivati dalla mancata collaborazione con la guardia costiera libica» vista come fumo negli occhi.

Il vero colpo da ko all’inchiesta arriva dalle comunicazioni «terra-bordo», fornite dalla difesa, di Imrcc, il Centro di comando e soccorso a Roma della Guardia costiera italiana. Agnello arriva alla conclusione che, nonostante informazioni «non immediate» le navi delle Ong «una volta comunicata la loro presenza al centro di coordinamento si siano strettamente attenute alle indicazioni ricevute da Imrcc, anche accogliendo a bordo su specifica richiesta dei militari un numero di migranti di gran lunga superiore alla loro capacità di carico». Una fonte di Panorama, in prima linea sul fronte del mare, sostiene che «l’informativa riassuntiva di oltre 600 pagine dell’inchiesta si basava proprio sul fatto che la Guardia costiera aveva ricevuto informazioni errate, parziali o devianti. Se veniva trasmessa alle Ong una situazione di pericolo, vera, falsa o generata in maniera tale da ottenere l’autorizzazione ad intervenire, non si poteva fare diversamente. Questo era il sistema».

Nelle conclusioni della requisitoria, che affondano il processo, si legge: «La deduzione investigativa di contatti intercorsi fra gli imputati e scafisti finalizzati alla “consegna concordata di migranti” non ha trovato riscontro». Al contrario si adombra un fattore attrazione essendo «certamente vero e provato che i natanti delle Ong svolgevano una vera e propria attività di “pattugliamento” delle zone Sar di fronte le coste libiche in attesa di imbarcazioni in precarie condizioni di navigazione stracariche di migranti». Però non trova conferma il comportamento doloso delle Ong: «Non vi è prova sufficiente della consapevolezza da parte degli imputati della illegittimità del trasporto» scrive il procuratore aggiunto «anche se questo finisce per agevolare l’ingresso illegale di stranieri nel territorio dello Stato».

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