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Le manovre per il dopo Elly Schlein



Tra gaffe strategiche e battaglie mal condotte, la leadership Pd di Elly Schlein è sempre più in bilico. E già si prepara un ingombrante «commissario».

«Dopo le elezioni europee smantellerò le correnti». Mentre ripete con puntualità svizzera il mantra fondante della sua segreteria, Elly Schlein non si accorge che le correnti stanno smantellando lei. Quel fastidio latente dietro il collo, quello starnuto estemporaneo, sono segnali da tenere in considerazione: gli spifferi nel Pd non sono mai casuali e da quelle parti i raffreddori brezneviani lasciano ancora il segno. L’operazione è cominciata in primavera e potrebbe concretizzarsi in autunno, quando entreranno in carica i nuovi commissari a Bruxelles. Allora Paolo Gentiloni, che non si ricandida, tornerà a casa per continuare il lavoro: commissariare il Nazareno senza diventarne il segretario.

È la ricerca di un’armocromia politica, un’apparizione scomparente in linea con le contorsioni del club: lui potrebbe semplicemente affiancare la leader di facciata, farle da tutor, limitare le troppe scivolate gruppettare di questi 14, accidentatissimi mesi. E garantire a se stesso una poltrona più istituzionale e defilata rispetto a quella con i pistoni da toro meccanico della segreteria: sarà presidente del partito al posto di Stefano Bonaccini, destinato al ruolo di capogruppo al parlamento Ue. In uno scenario simile Schlein non verrà toccata, per ora, ma solo depotenziata. Come spiega un vecchio habitué di quelle stanze: «Anche per l’apparato digerente del Pd cambiare tre segretari in meno di tre anni sarebbe troppo». E il partito del popolo? Ripassare. «Dobbiamo uscire dal palazzo e tornare a mobilitare centinaia di migliaia di persone», indica la via il marxista gentile Gianni Cuperlo. Una voce nel deserto. E le duemila sezioni per far crescere nuovi fiori? Un’altra volta. La serra è arida ed Elly è in bilico, condizionata da una «balcanizzazione sotterranea» che non è riuscita ad anestetizzare. Con un problema innanzitutto: tranne i fedelissimi della kinderheim (Chiara Gribaudo, Marco Furfaro, Brando Benifei) nessuno si fida più di lei.

Non i dem della sinistra storica Andrea Orlando, Enzo Amendola, Nicola Zingaretti, anche se continuano in pubblico a supportarla. Non i cattodem Dario Franceschini, Lorenzo Guerini e Graziano Delrio, in silenzio da buoni sacrestani per schierarsi all’ultimo momento con chi vince. Non i cacicchi territoriali calpestati dai birkenstock di Schlein, come Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, che se potessero la metterebbero a cavallo di un missile e accenderebbero la miccia. Non gli ex renziani di Base Riformista, guidati da un Luca Lotti con la gastrite permanente nel constatare che l’unico riformismo di Elly è quello di andare a braccetto con Maurizio Landini per smantellare il Jobs act. E con Giuseppe Conte per smantellare la credibilità governista. Nonostante la negatività dilagante, le elezioni europee non saranno per lei un «or up, or out», o vince o va a casa. A meno di una batosta sotto il 18 per cento lei potrà trascorrere l’estate galleggiando con il giubbotto salvagente a Capalbio, o forse in Sardegna dove ha celebrato l’unica vittoria al fotofinish mentre tutto il resto andava in rovina. In attesa dei primi freddi e del conte zio Paolo Gentiloni, che arriverà a farle da badante in pantofole e a spiegarle che le correnti non vanno prese a calci, ma armonizzate come il colore degli occhi con la giacchina new dandy straccione da duemila euro.

Il bilancio di Schlein fin qui è negativo, costellato di gaffe. Ha esordito rivoluzionando il comitato centrale al grido di «Via chi non vuole cambiare» e «Chi è contro il nuovo ha sbagliato tutto». Una mossa-boomerang che ha immediatamente irritato i colonnelli. Reazione tipo: «Ma come si permette? Si è asserragliata con i suoi, sembra Occupy Pd». Poi ha strizzato l’occhio alla rivoluzione woke e ai centri sociali, con il risultato di venire contestata il 25 Aprile a Milano dagli stessi soggetti. E di essere accomunata (il massimo dello sfregio) alla premier delle «peggiori destre» nello slogan più indigesto: «Ve la diamo noi l’economia di guerra/ Schlein, Meloni a zappare la terra». Ecco un rosario di prefazioni e pasticci. Ha promesso il salario minimo e l’ha perso per strada. Piange per il destino dei migranti ma non ha idea di come affrontare il problema. Denuncia i tagli alla Sanità dimenticandosi che li ha fatti in massima parte il Pd nel decennio di governo. Grida a TeleMeloni ma candida Lucia Annunziata, espressione plastica della Rai «de sinistra». È schierata contro la guerra in Ucraina ma fa votare il partito a favore dell’invio di armi a Kiev (poi manda in Europa due pacifisti come Cecilia Strada e Marco Tarquinio). Ha chiesto a Emiliano di azzerare la giunta regionale pugliese dopo l’affaire Pisicchio ma ha messo in lista il sindaco barese Antonio Decaro, lambìto dall’incendio politico. Voleva candidare Ilaria Salis ma i suoi le hanno sventolato davanti al naso la fedina penale dell’eroina di Budapest. Ha tuonato contro la scelta di Giorgia Meloni di candidarsi «per poi rinunciare al seggio» e ha tentato di fare lo stesso. Un disastro.

Completamente digiuna della grammatica di partito, su quest’ultimo tema si è fatta tirare le orecchie da un monumento dem come Romano Prodi: «Candidarsi dove sai che non andrai svilisce la democrazia». Schlein ha ringraziato, ha innestato la retromarcia e si è consolata, affermando (consapevole dello stile della casa): «Meglio una critica che una pugnalata alle spalle». Il coltello è infilato nella manica della giacca dei pretendenti alla segreteria, che a oggi sono Andrea Orlando (o il Nazareno o la scalata alla Regione Liguria), Dario Nardella detto il compare, Matteo Ricci detto il secchione, Stefano Bonaccini detto il super-presidente e Filippo Andreatta detto il professore, prodotto doc dell’ulivismo emiliano, figlio di quel Beniamino che inventò Prodi. Fra i papabili c’era anche Decaro, ma con questi chiari di luna in Puglia è meglio che si faccia un giro a Bruxelles. Loro sarebbero per il rogo post-elettorale, ma i capi corrente preferiscono cuocere Elly a fuoco lento con uno chef della tradizione come Gentiloni a fianco.

Ora sopportano in silenzio le sue ultime estemporaneità da neofita: la kermesse popolare nella Spa a 5 stelle di Gubbio, il giro elettorale nelle corsie degli ospedali fuori da ogni logica di opportunità (e infatti qualche dirigente sanitario le ha chiuso educatamente la porta). Sempre a ruota di Conte, la segretaria sembra in libertà vigilata. Deve mediare ogni uscita anche con gli uscieri ma in questa fase dadaista viene perfino accusata di dirigismo. Qualche giorno fa il deputato dem Roberto Morassut ha proposto: «Basta chiamarla segretario, è un termine troppo staliniano. Chiamiamola portavoce».

Mentre al Nazareno si consuma l’ennesima faida interna, a lady Schlein in crisi d’identità non resta che parlare. E anche questo è un problema. Chiamata in causa per l’overbooking di Lampedusa, si è espressa con il suo lessico incomprensibile: «La situazione è la dimostrazione del fallimento delle politiche di esternalizzazione del governo». Perfino Lilli Gruber non si è trattenuta: «Ma chi la capisce se parla così?». Gratta gratta, per ora l’unico colpo di genio dell’era Elly rimane l’armocromista, se non altro perché ha mandato in visibilio gli armocronisti di riferimento. Non Maurizio Crozza che ha subito centrato l’obiettivo: «Con lei è fuori moda parlare di licenziamenti, meglio definirli happy ending. Con lei non esiste la disoccupazione ma una clochard opportunity. Il Pd è il partito del design».

Una sensazione generale, dalle scrivanie che contano agli intellettuali organici, dai grand commis dello Stato (il Pd ne ha piazzati a centinaia) ai volontari delle feste de L’Unità. Talvolta la satira è più efficace di un aulico editoriale di Massimo Giannini su Repubblica. Lo scenario accelera il rientro di Gentiloni e una possibile diarchia, anche se il conte Silveri di Filottrano, Cingoli, Macerata e Tolentino (che destino per l’ex partito degli operai) non sopporta né il Conte con pochette, né il cambio di rotta sull’Ucraina. «Se perde Firenze il 9 giugno, Schlein perde anche la segreteria», sibila una voce che arriva dal backstage. È il solito Matteo Renzi, che tifa come al solito per uno showdown immediato. Quando vede bruciare il Pd, lui apre la seggiola da regista e prepara i popcorn.

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