Myanmar: guerriglieri Karen alla riscossa
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Tra i guerriglieri delle etnie perseguitate che combattono la giunta golpista, nell’est del Paese. Uno snodo cruciale per lo sviluppo dell’Asia. Di cui la Cina vuole il controllo.
Galawa, un uomo di una trentina d’anni, si prepara. Riempie il caricatore del suo fucile di precisione mentre ascolta con attenzione una radio consumata dal tempo, pronto a eseguire gli ordini che vengono impartiti dal comando. Ci siamo. Con mira chirurgica centra la feritoia del bunker in cui i nemici stanno tentando disperatamente di resistere da ormai due settimane. Il suo sparo - letale - rompe il silenzio dell’alba. Siamo nello Stato Karen, nell’est del Myanmar, dove i «guerriglieri della giungla» stanno conducendo un assalto contro l’avamposto militare birmano di Teekpler, nel distretto di Dooplaya, non lontano dal confine con la Thailandia.
L’attacco è solo una delle tante operazioni che stanno portando avanti in tutto il Paese gli eserciti etnici e il People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), il governo clandestino che si è costituito dopo il golpe del 1° febbraio 2021, con l’obiettivo di rovesciare i militari al potere e creare uno Stato federale. È una forza che conta decine migliaia di combattenti in tutto Myanmar. «Le azioni coordinate stanno infliggendo gravi perdite alla giunta in termini di uomini, armi, attrezzature, basi e supporto» spiega a Panorama il generale Nerdah Mya, numero uno del Kawthoolei Army (Ktla), il gruppo di cui fa parte il tiratore scelto Galawa. «Siamo qua a condurre la nostra offensiva e, nel frattempo, altre fazioni Karen si stanno contendendo la strategica città di Myawaddy» aggiunge, mentre tutto intorno risuonano scambi di fuoco intensi, tra raffiche di proiettili, esplosioni di mortai birmani da 120 millimetri e boati d’artiglieria pesante. La mattina è appena iniziata e la densa nebbia che avvolge la foresta si sta lentamente alzando, mostrando i segni di una battaglia lunga e feroce. Myawaddy è una città di 200 mila abitanti e una porta commerciale chiave tra la Thailandia e il Myanmar. Gran parte dello scambio via terra tra i due Paesi, stimato in più di quattro miliardi di dollari nel 2023-2024, passa da qua. «Liberare questa città rappresenta un punto di svolta», ha detto David Brenner, esperto di Birmania e docente all’Università del Sussex, nel Regno Unito. «Non si tratterebbe semplicemente di un altro centro urbano nelle mani della rivoluzione, ma della trasformazione per la logistica della resistenza in una dimensione completamente nuova».
Il punto di non ritorno è stato raggiunto il 1° febbraio 2021, quando il generale Min Aung Hlaing, capo delle forze armate del Myanmar, ha preso il potere nelle prime ore di quello che sarebbe dovuto essere il giorno d’inaugurazione del nuovo Parlamento. Ponendo così fine a un breve periodo di riforme democratiche guidate dalla National League for Democracy (Nld) di Aung San Suu Kyi - premio Nobel per la pace nel 1991 - e catapultando il Paese in una guerra civile tanto devastante quanto dimenticata. Finora, secondo l’Armed Conflict Location and Event Data Project (Acled), un’organizzazione non governativa specializzata nell’analisi dei conflitti, da quando il golpe è avvenuto nel 2021, ci sarebbero stati almeno 50 mila morti. A questi vanno aggiunti i 2,6 milioni di sfollati - in un Paese di circa 55 milioni di abitanti - segnalati alla fine del 2023 dall’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite e le oltre 26 mila persone arrestate - dati dell’Assistance Association for Political Prisoners (Burma) - per essersi opposte alla giunta.
Tra queste, ovviamente, troviamo anche la politica Aung San Suu Kyi, ora 78enne, condannata a 33 anni di carcere con numerosi capi di accusa, molti dei quali ritenuti infondati. Di recente è stata trasferita agli arresti domiciliari, non nella sua abitazione, ma in una struttura all’interno di una base militare, a causa del caldo di questi giorni, che potrebbero mettere a rischio la sua salute. In questo conflitto, dove il tempo sembra essere sospeso, con i combattenti che portano infradito mentre imbracciano vecchi fucili d’assalto e scavano trincee nel fango, la modernità arriva all’improvviso, con il rombo assordante dei MiG29 dell’esercito birmano, che bombardano indistintamente civili e guerriglieri.
«Airplane, airplane!» urla Lekò un fedele di Nerdah Mya, mentre si getta a terra, pregando di non essere centrato. Il jet delle forze armate del Myanmar passa sopra le teste per due volte, sganciando bombe da 500 chilogrammi. Stavolta senza fare vittime. Qualche giorno prima un attacco aereo ha ucciso cinque persone proprio vicino a Teekpler. Il 7 gennaio scorso, a Kanan, nella regione di Sagaing, non lontana da Mandalay, la seconda città più grande della Birmania, un «caccia» della giunta ha colpito una chiesa mentre i fedeli stavano partecipando alla funzione religiosa, uccidendo 17 civili, tra cui nove bambini. A marzo un altro attacco aereo vicino a Minbya, nello Stato Rakhine, nel Myanmar occidentale, aveva causato la morte di 24 persone, compresi dieci minori. Tom Andrews, relatore speciale dell’Onu per i diritti umani in Myanmar, ha espresso «profonda preoccupazione» per i recenti bombardamenti. Ha inoltre rivelato che, secondo i dati a sua disposizione, «gli attacchi aerei da parte delle forze armate birmane sono quintuplicati da ottobre 2023 a oggi». Un massacro. Mentre la popolazione del Myanmar è dilaniata dal conflitto, la Cina - che per molti analisti potrebbe essere determinante nel far tornare alla pace il Paese del Sud-est asiatico - osserva gli sviluppi mantenendosi in quella linea sottile tra il sostegno al regime militare e l’attenzione alla (lieve) pressione internazionale mostrata in questi tre anni.
«La Cina adotta una doppia strategia. Il colpo di Stato ha di sicuro creato tensioni, ma sono pragmatici e sanno adattarsi a tutto pur di tutelare i loro interessi» afferma Zachary Abuza, insegnante al National War College di Washington. Con una lunga storia di relazioni diplomatiche ed economiche, negli anni Pechino ha investito miliardi di dollari nei settori dell’energia e delle infrastrutture attraverso il China-Myanmar Economic Corridor (Cmec), componente fondamentale della sua Belt and Road Initiative (Bri), conosciuta anche come «One Belt, One Road». Lanciato nel 2013 dal presidente Xi Jinping, è l’ambiziosissimo progetto infrastrutturale - ora bloccato - che mira a creare una vasta rete di rotte di collegamento del Dragone con il resto del mondo. Il focus principale è sviluppare, attraverso la Birmania, una direttrice commerciale alternativa allo Stretto di Malacca, dove transita circa l’80 per cento del petrolio importato dalla Repubblica popolare, proveniente dal Medio Oriente. Tra i progetti-chiave figura il porto di Kyauk Phyu, nel Golfo del Bengala, che ha già richiesto investimenti per circa otto miliardi di dollari, e comprende lo sviluppo di autostrade, gasdotti e oleodotti. Tali infrastrutture connetterebbero lo Stato Rakhine (o Arakan), teatro di violenti scontri tra la guerriglia etnica dell’Arakan Army e le forze armate, direttamente alla città cinese di Kunming, nello Yunnan, offrendo di fatto una rotta cruciale per il trasporto di petrolio dal Golfo Persico.
Intanto la guerra prosegue. Nella fitta boscaglia della giungla e nelle città, le forze della resistenza stanno infliggendo colpi significativi ai militari del premier birmano Min Aung Hlaing. Nello Stato Karenni (abitato da una sub-etnia dei Karen) i combattenti della Karenni Nationalities Defence Force (Kndf) hanno conquistato quasi interamente Loikaw, la loro capitale. A Laukkai, nello Stato Shan, ben 2.400 soldati della giunta si sono arresi in un evento senza precedenti. Questa situazione straordinaria potrebbe accelerare una resa dei generali al potere da decenni, o spingerli quantomeno a cercare un negoziato con i numerosi gruppi armati, segnando così il nuovo inizio del «Paese d’oro», ora intrappolato in un sanguinoso incubo. «I generali hanno i mesi contati» dice Nerdah Mya mentre conforta un ferito nella piccola tenda che ospita un posto di primo soccorso a ridosso del fronte. «Finalmente il mio popolo otterrà la libertà. Abbiamo lottato per questo, nell’indifferenza del mondo, per quasi 75 anni».