La vita che alza il suo grido tra pittura e poesia

L’umanità di Lucian Freud è dalla parte della morte. Il tempo ferisce, la carne fermenta e si decompone, il sesso mortifica. Eppure nessun pittore più di Freud intende la pittura come resistenza. Se pensiamo a Francis Bacon o Mark Rothko ne avvertiamo il cupio dissolvi, come una avvenuta rinuncia a combattere: l’annientamento di cui si farà interprete Michel Houellebecq. Le loro immagini sono in diverso modo inghiottite dal nulla: un vortice, un appiattimento, il buio. In Freud c’è lo scontro: negli autoritratti, nei ritratti degli amici, negli animali randagi, perfino nella resistente regina Elisabetta II. La morte è certa, è dentro la vita, sotto la pelle, nella carne frollata da quel macellaio che è il tempo. Il nostro è solo quello residuo che ci separa dalla morte. Ma tutti i personaggi di Freud sono ancora al di qua. Combattono per non morire. La loro carne è umiliata, ma il loro spirito non è vinto. Stéphane Mallarmé scrive: «La carne è triste, ahimé, e ho letto tutti i libri». Questo senti nei dipinti di Freud, e solo De Kooning, in taluni momenti, nella sua pittura disfatta, vede la stessa umiliata condizione umana. «Voglio che il dipinto sia flesh, carne», scrive Freud, che, con Willem de Kooning, condivide l’idea che «la carne è la ragione per cui è stata inventata la pittura a olio». E sull’idea di carne pittorica lavora ossessivamente: per lui è una forma di vero snudamento del soggetto (le modelle «quando si tolgono i vestiti non sono nude; la loro pelle è diventata un altro tipo di abito»).

Lo dice bene Stefano Salis: «Perché quelli di Freud, infatti, non sono ritratti, a stare ancora più attenti, ma autopsie in vita: nature moribonde. Il pittore è interessato alla decadenza istantanea degli esseri viventi e la ritrae senza pietà ma anche senza astio: certifica semplicemente, ad ogni istante, che ciò che gli interessa, e vede, è la tensione verso la morte, colta a fior di pelle. Dai dipinti giovanili agli ultimi, non verrà mai meno a questa tetra e pure naturalissima corsa al disfacimento. Forse, anzi, per lui sarà questo il segno più evidente dell’esser vivi». Di lì, a un urlo estremo della pittura, mi è sembrato inevitabile il rapporto con la poesia allarmata e allarmante di Dylan Thomas. Mi risuonavano nella mente alcuni suoi versi, in una delle notti scorse: «Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo; e la morte non avrà più dominio».

E ho pensato di risalire all’intero testo di Dylan Thomas, un poeta molto letto dalla mia generazione, e oggi quasi completamente dimenticato. Thomas, inglese, dalla vita maledetta, fu un riferimento per la Beat generation. Al suo valore poetico corrispondeva un modo di vivere di grande dissolutezza, tra sperperi e ubriachezza, come per una fuga dalla realtà e dalla famiglia. Malgrado la dipendenza dall’alcol e la vita disordinata, ebbe il riconoscimento e il sostegno di amici e intellettuali che ne ammiravano l’originalità. Nasce nel 1914 a Swansea, nel Galles. Nel 1941, riformato per motivi di salute dal servizio militare, lavora anche per la Bbc. Nel 1947 è in Italia, dove frequenta Luigi Berti, suo traduttore, ed Eugenio Montale; in primavera è ospite difficile nella villa dei Del Beccaro di Mosciano a Scandicci, vicino a Firenze, dove scrive anche versi polemici, parzialmente in italiano, contro gli uomini di lettere che si ostinano a parlargli in inglese pur sapendo al massimo «ordinare il vino». Ad agosto manifesta la sua insofferenza per il caldo estivo, salvo che all’isola d’Elba: «Amo quest’isola, e vorrei non vederla in una delle stagioni infernali. Qui la birra fredda è Dio in bottiglia!».

Nel 1951 parte avventurosamente per l’Iran, dove la Anglo-Persian Oil Company gli commissiona una sceneggiatura che metta i petrolieri in buona luce di fronte al mondo. Paradosso lontano dalle sue idee. E Dylan, anziché dei petrolieri, scrive lettere (alla moglie, agli amici e alle amanti) principalmente sulla popolazione e sulla letteratura. In Iran compone la sua poesia forse più più famosa, Do not go gentle into that good night («Non andartene docile in quella buona notte»), dedicata al padre malato di cancro, mancato nel dicembre 1952. Thomas morirà l’anno dopo, a 39 anni. Sono spesso tornato ai suoi versi, pensando a mio padre, e a persone care scomparse nel pieno di una vita irragionevolmente interrotta. La morte è il dolore più grande, e Dylan invoca una resistenza per suo padre e per tutti, che raramente ha tanta forza in poesia, dove si fa malinconia, nostalgia, ricordo.

Oltre al padre, Dylan Thomas estende la sua rabbia contro la morte con la forza della parola che vive, e che è dentro di noi, se mi torna in mente all’improvviso nei versi che ho citato sopra. La forza di una parola che è la sua anima, che è nella idea stessa di Resurrezione su cui si fonda la nostra, e la sua, religione. Questa invoca, e rende presente, Dylan Thomas. Questa ritorna come un grido, come una ribellione al finire della luce. Thomas urla al padre: «Infuria, infuria contro il morire della luce». Quel grido diventa un’invocazione, una preghiera, che sembra negare l’esistenza stessa della morte, come la sopravvivenza delle sue parole nella mia memoria:

«E la morte non avrà più dominio.

I morti nudi saranno una cosa

Con l’uomo nel vento e la luna

d’Occidente;

Quando le loro ossa saranno spolpate

e le ossa pulite scomparse,

Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;

Benché ammattiscano saranno sani

di mente,

Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,

Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;

E la morte non avrà più dominio.

E la morte non avrà più dominio.

Sotto i meandri del mare

Giacendo a lungo non moriranno

nel vento;

Sui cavalletti contorcendosi mentre

i tendini cedono,

Cinghiati a una ruota,

non si spezzeranno;

Si spaccherà la fede in quelle mani

E l’unicorno del peccato li passerà

da parte a parte;

Scheggiati da ogni lato non

si schianteranno;

E la morte non avrà più dominio.

E la morte non avrà più dominio.

Più non potranno i gabbiani gridare

ai loro orecchi,

Le onde rompersi urlanti sulle rive

del mare;

Dove un fiore spuntò non potrà un fiore

Mai più sfidare i colpi della pioggia;

Ma benché matti e morti stecchiti,

Le teste di quei tali martelleranno

dalle margherite;

Irromperanno al sole fino e che

il sole precipiterà,

E la morte non avrà più dominio».

Ogni giorno ci rendiamo conto del contrario, e, mentre passano gli anni, e se ne vanno persone care, e scompaiono amici, ci rendiamo conto di essere sopravvissuti. La guerra è terribile, ma la vita stessa è una guerra, e noi vediamo intorno i caduti. La nostra sola speranza è poterli ritrovare, alla terribile condizione di passare anche noi dall’altra parte. Per questo ha tanta forza la poesia di Dylan Thomas. Per questo i suoi versi, dalla parte della vita, sono così potenti. Per questo, in loro, lui vive. Ed è la stessa ragione per cui la pittura di Freud è così forte, così inevitabile così dentro la vita fino al suo ultimo grido: «Infuria, infuria contro il morire della luce».