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“Faute de pied!”: Fabio Fognini e la vittoria più crudele della carriera-

Thomas Muster aveva appena vinto la semifinale del torneo di Miami del 1989, battendo in cinque set il francese Yannick Noah al termine di una rimonta strepitosa: aveva 21 anni e stava scalando il ranking del tennis mondiale, dimostrando di poter macinare del tennis competitivo anche lontano dalla comfort zone della terra rossa. Prima la semifinale dell’Australian Open, persa con Lendl, e poi, un paio di mesi più tardi, la finale in Florida. Una finale che, però, non si disputò mai.

Thomas Muster aveva appena vinto la semifinale del torneo di Miami del 1989 e- terminata la giornata di lavoro- stava sistemando il borsone da tennis nel bagagliaio della propria auto- appena fuori dallo storico impianto di Key Biscane- quando venne investito da una vettura guidata da un uomo ubriaco: il campione austriaco fece un volo di chissà quanti metri, rompendosi tutto. Il ginocchio sinistro non esisteva più, e i primi pareri dei dottori furono piuttosto inquietanti: “Potrebbe rimanere zoppo, non sappiamo se tornerà a giocare a tennis”.

Fu in quel momento che la faccia giusta dell’uomo trasformò il tennista nella leggenda metropolitana: “Musterminator” recuperò a tempo di record, e la giovane carriera strozzata dall’infortunio diventò l’aneddoto della vita ma soprattutto della resurrezione di un numero 1 del mondo. Il soldato ricominciò ad allenarsi con la gamba ancora completamente ingessata, grazie ad una panca speciale, che gli regalava il sapore amaro della partita, quello dolce dello scambio e quello goffo della fatica: giocava a tennis, muoveva il busto, ma era ovviamente ancorato a quella sedia ingombrante.

Il robot, per ritornare tale, fu dunque obbligato dalle circostanze a riscoprire- nell’epoca del tennis moderno, contrassegnato dalla lotta nel fango e dalla maratona- il gusto di colpire la palla e sulle macerie di quel ginocchio ricostruì da capo la propria personale ascesa al vertice del circuito ATP. Ma, al di là delle epoche e del fascino degli altri tempi, non si può giocare a tennis senza una gamba, o almeno così ci hanno sempre raccontato: il 29 Maggio del 2011 Fabio Fognini sul campo Suzanne Lenglen del Roland Garros riuscì a smentire, anche se solo per qualche minuto, la logica di Muster e di una tesi così ovvia, e vinse la partita più crudele della sua carriera. Senza una gamba. 

I PROTAGONISTI

Fabio Fognini era atterrato al Roland Garros del 2011 con lo sguardo mogio e la testa pesante di un tennista in crisi di fiducia, perché la lunga stagione primaverile sulla terra battuta era stata disastrosa: primo turno nel challenger di Barletta, secondo turno a Montecarlo (sconfitto da Troicki), ritiro all’esordio di Barcellona con Vagnozzi (sì, esatto, quel Vagnozzi) e poi ancora tre sconfitte consecutive (Delbonis a Madrid, Wawrinka a Roma, Gulbis a Nizza). L’unico piccolo sospiro di sollievo era arrivato a inizio aprile, a Casablanca, dove aveva raggiunto i quarti di finale prima di essere eliminato dallo spagnolo Albert Montanes, e non dobbiamo dimenticarci questo nome.

A Parigi Fabio, oltretutto, difendeva la pressione dei 90 punti del 2010, quando aveva raggiunto il terzo turno dopo una vittoria epica e agonica ai danni di Gael Monfils (cinque set spalmati in due giorni e in una notte senza riflettori, sul Philippe Chatrier): per una volta, però, il sorteggio francese gli aprì l’autostrada dello spicchio giusto del tabellone e Fogna (all’epoca numero 48 della classifica ATP) ne approfittò, superando finalmente l’asticella del terzo turno di un torneo dello Slam.

Il suo percorso: Istomin (numero 58 ma abbastanza innocuo sul rosso), quel che rimaneva del veterano Robert (numero 140 dei tennisti ma numero 1 dei sornioni, che all’esordio aveva firmato l’impresa della vita, vincendo un rocambolesco quinto set con la testa di serie numero 6 Tomas Berdych) e poi l’eleganza compassata di Guillermo Garcia-Lopez (33).

E non era finita qui, perché gli ottavi di finale avevano le sembianze subdole dell’occasione rara e forse unica, di quelle da cogliere al volo: avevano per la precisione le sembianze di Albert Montanes (rieccoci qui), 30 anni, numero 38 del ranking mondiale, tennis leggero e molto spagnolo, un tennis meccanico ma nel complesso un po’ sottovalutato. Rovescio monomane e luminoso, faccia timida e silenziosa, terraiolo ma nella migliore accezione del termine, terraiolo completo e tutto sommato moderno, terraiolo ma non “terraiolaccio”, perché quando non esistono gli aggettivi giusti bisogna provare a inventarseli. Montanes era infatti reduce da buoni risultati negli slam più rapidi: terzo turno a Melbourne nel 2009, terzo turno a Wimbledon nel 2009 e nel 2010, ottavi di finale allo US Open del 2010. I migliori anni della sua carriera, in poche parole, con il premio meritato di un best ranking di numero 22 (Agosto 2010). 

Nel corso di quel Roland Garros aveva battuto senza troppi problemi Gicquel, e poi Ruben Ramirez Hidalgo- il tennista che giocava con la pelle d’oca, per via della manica destra sempre arrotolata sopra la spalla– e infine Mikhail Youzhny: insomma, inutile girarci intorno, anche per Montanes gli ottavi di finale contro Fabio avevano esattamente le stesse sembianze subdole dell’occasione rara e forse unica, di quelle da cogliere al volo. Era tutto apparecchiato per lo psicodramma del torneo: il confronto tra due personalità opposte, il palcoscenico prestigioso, il pubblico felice della domenica di mezzo del torneo, un pubblico neutrale ma per questo motivo forse ancora più pericoloso, perché volubile, e infine l’opportunità che valeva una carriera.

Era tutto apparecchiato per lo psicodramma del torneo, ma la realtà superò anche gli incubi più dolorosi. Per entrambi i protagonisti.

Che cosa stavate facendo la mattina del 29 Maggio 2011? Fabio Fognini e Albert Montanes, ad esempio, avevano un appuntamento con lo sport del diavolo. Arrivarono puntuali, e persero.

“Il fallo di piede è la regola che stabilisce che durante il compimento del movimento del servizio, e prima di colpire la pallina con la racchetta, non è possibile toccare con il piede né la riga di base, quella di fondocampo, e nemmeno il prolungamento immaginario della linea che delimita il lato di battuta (dalla linea laterale del corridoio fino al segno centrale di servizio).
La chiamata del fallo di piede comporterà la non validità di quello specifico servizio, quindi se chiamato alla prima di servizio, il giocatore avrà a disposizione la seconda palla di servizio. Se invece viene chiamato sulla seconda di servizio, esso comporterà la perdita del punto”

LA PARTITA

“Faute de pied!”: se questa partita fosse una canzone il ritornello sarebbe inevitabilmente un ritornello francese. Tre parole, ripetute in modo ossessivo, che bussano alle porte del nostro cervello per poi incastrarsi lì, per tutta la giornata, come un tormentone fastidioso ma irrinunciabile. “Faute de pied!”. Fallo- di- piede.

Fognini-Montanes era, insieme a Falla-Chela, il match sulla carta meno prestigioso di tutto il quadro degli ottavi di finale: Nadal-Ljubicic, Simon-Soderling, Murray-Troicki, Ferrer-Monfils, Federer-Wawrinka e Djokovic-Gasquet. Il contesto di quell’incontro era un contesto piuttosto contraddittorio: i due protagonisti scesero in campo con lo stomaco divorato dalla tensione della grande occasione mentre gli spettatori del Suzanne Lenglen- che non avevano il dovere di comprendere l’importanza della partita- arrivarono con calma per il primo match della giornata, alle ore 11, pronti a godersi il sole di una calda domenica parigina e l’antipasto della ricca giornata di spettacolo, pronti a divertiirsi con la lotta e a tifare per il sangue della partita, in attesa di sfogare tutti i polmoni per il match di Monfils. Fognini e Montanes- a proposito di polmoni- respiravano l’aria dell’ansia, il pubblico respirava l’aria della festa. E questo spread tra gli impulsi dei giocatori e quelli degli spettatori fu a mio parere decisivo, contribuendo a spingere Fognini e Montanes verso il baratro emotivo di una normale partita di tennis, che però ad un certo punto diventò qualcos’altro. 

I primi quattro set furono surplace allo stato puro, perché questa tipologia di incontri prevede- quasi da regolamento- il quinto set, e di conseguenza la volata drammatica: 6-4 Montanes, 6-4 Fognini, 6-3 Montanes, 6-3 Fognini. La perfetta simmetria del punteggio si era adeguata alla sceneggiatura del match, disegnando il contorno del trailer di quello che stava per succedere: lo spagnolo in avvio di quinto set tentò il bluff della fuga, portandosi sul 5 a 2, ma non ci cascò nessuno. Fabio piazzò infatti il controbreak sul 3 a 5- senza annullare match point- grazie ad un rovescio lungolinea travestito da lampo. Il livello si alzò all’improvviso: Fabio frustava il campo con le accelerazioni, Montanes tesseva- quasi di nascosto- la ragnatela del suo tennis onesto, infilandosi nelle pieghe dello scambio e dei nervi dell’avversario. Lo spagnolo sul 5 pari si salvò dal 15-40, grazie ad una smorzata silenziosa e ad una risposta isterica e di conseguenza steccata di Fognini: le pieghe dello scambio, le pieghe dei nervi. “Vamos!”

La partita continuava a scorrere, ma noi non potevamo sapere che non era nemmeno cominciata. Perchè sul 6-7 15-30, con Fabio al servizio, il dio dello sport del diavolo decise di non accontentarsi. Perchè, sul 6-7, 15-30, con Fabio al servizio, una smorfia fermò il tempo del Suzanne Lenglen: Fogna appoggiò una brutta prima di servizio, che finì lunga di mezzo metro, per poi toccarsi la gamba sinistra, senza nemmeno terminare il movimento, come se fosse stato pizzicato da una scossa: la dinamica sembrava la classica dinamica di un crampo, e non di un infortunio muscolare. Già, sembrava.

Fabio, spaventato dal dolore e ad un passo dalla sconfitta, chiese l’intervento immediato del fisioterapista, mentre il pubblico, sospettando una mossa tattica, tentò di smascherare il trucco travolgendo il ligure di fischi. Il gioco riprese qualche minuto dopo e Fognini si ripresentò alla battuta con due novità: una fasciatura (reale) che gli reggeva la coscia e una benda (metaforica) che gli copriva gli occhi. Aveva deciso di tirare tutto, perché quella era l’unica soluzione. Aveva deciso di tirare tutto, perché non poteva più muoversi. Aveva deciso di tirare tutto, perché stava giocando con una gamba sola.

L’ARTICOLO DI QUEL GIORNO DEL DIRETTORE UBALDO SCANAGATTA

Montanes aveva appena scoperto di essere diventato il favorito della partita, o, peggio ancora, il naturale vincitore, e fu quello il momento esatto in cui la perse. 

Dritto vincente e occhi chiusi, firmato Fogna, 30 pari, peggiore smorzata della carriera di Montanes, 40-30, un altro errore dello spagnolo, completamente nel pallone: 7 pari. Fognini sembrò concedersi un’esultanza, ma- riguardando la partita tredici anni dopo- ci rendiamo conto che quella non era un’esultanza ma essenzialmente una crisi di pianto: perché proprio a me, perché proprio qui, perché proprio adesso.

Fognini scuoteva la testa, Montanes voleva scomparire da quel campo: lo spagnolo provò a respirare, sfruttando la palla corta, Fabio invece nel frattempo rischiò di decapitare l’arbitro con una risposta a tutto braccio (8-7 Spagna) e, nel game successivo, pareggiò i conti (8 pari) dopo essere sopravvissuto a due match point e a cinque falli di piede (quattro gli furono chiamati sulla prima di servizio, due dei quali proprio sui match point, mentre il quinto su una seconda, con conseguente doppio fallo). “Faute de pied!”

La situazione stava diventando surreale, perché, come disse una volta un filosofo nonché ottimo talento del tennistavolo mondiale, Forrest Gump, “La vita è come una scatola di cioccolatini…”: ad un certo punto uno spettatore, nel bel mezzo dello scambio, decise di sfoderare il proprio senso dell’umorismo, urlando, all’improvviso, Faute de pied!, e tutti gli altri esplosero una risata. 

“…non sai mai quello che ti capita”.

L’EPILOGO, LE PAGINE CHIARE E LE PAGINE SCURE

Lo spread delle emozioni stava diventando insostenibile, e Montanes, nel frastuono del pubblico sghignazzante, sbagliò un altro rovescio.

Mettiamoci nei suoi panni: dicono che in queste situazioni bisogna continuare a giocare normalmente, dicono che non bisogna guardare dall’altra parte del campo, dicono che bisogna imbrogliare il cervello rifugiandosi nella routine e nei tic ossessivo-compulsivi tipici dei tennisti professionisti, svuotando così la testa da qualsiasi pensiero. Ma lo dicono dal divano. Come si fa a giocare normalmente (qualsiasi cosa voglia dire) contro un avversario che colpisce bendato? La normalità della partita è caratterizzata dalla relazione tra due giocatori, e non dal monologo di un tennista infortunato che prova a rimanere a galla. La partita più importante della tua carriera è diventata l’esibizione balistica di un altro, e tu resti lì, e ti fai trascinare. 

Fognini era oltretutto- parliamoci chiaro- l’unico tennista del mondo che poteva pensare di poter vincere un match del genere: il talento dell’anticipo, la fluidità del braccio, la forza del polso, lo spettacolo del rumore della palla. Aveva perso l’equilibrio e la lucidità fisica (il piede sinistro andava per i fatti suoi, ecco spiegati tutti quei “Faut de pied!”) e si era aggrappato al tennis, urlando dal dolore nelle pause tra un punto e l’altro. I severissimi giudici di linea del Roland Garros (è appena terminato il torneo di Roma, quanti falli di piede sono stati segnalati in due settimane di torneo? Parigi è la sfilata dei falli di piede, fateci caso) non avevano avuto pietà di lui: 9-8 Montanes, 15-40, due match point, “Faute de pied!”, seconda di servizio da circolo, e andate a vedere dove butta la risposta Montanes.

Quella non era una risposta di dritto, quella era una tragica dichiarazione di resa. E infatti. E infatti lo spagnolo cominciò, finalmente, a parlare da solo, prima di farsi annullare un altro match point (l’ennesimo lampo di Fabio, un dritto che sembrava uno smash), e poi ancora un altro (smorzata vincente). 9 pari, e non si capiva bene come. Per Montanes si stava finalmente avvicinando il sollievo della sconfitta: subì il break a 15, travolto dal solito cocktail di miracoli e auto-sabotaggio, consentendo all’avversario di servire per chiudere l’incontro più assurdo della vita.

Fabio vinse il primo punto con un dritto che si arrampicò sul nastro, gli fece le coccole, e cadde dall’altra parte. E infine non si fece spaventare dall’ultimo “Faute de pied!”, che gli costò un doppio fallo sul 40-15: eravamo ormai ai titoli di coda. Montanes dopo un’agonia di 4 ore e 22 minuti fuggì dal campo, inseguito dai fantasmi, Fabio invece rimase per una volta a bocca chiusa, e festeggiò i suoi primi (e unici) quarti di finale slam della carriera nascondendosi dietro al muro delle lacrime, chiedendo scusa al pubblico. Il mattino successivo ingoiò l’amarezza di una vittoria stregata e annunciò il suo ritiro dal Roland Garros (distrazione di primo grado al retto femorale della gamba sinistra, altro che crampi, rientrò in campo solamente un mese e mezzo dopo), rinunciando di conseguenza al match più prestigioso della vita, nel suo torneo preferito, contro Novak Djokovic: il serbo, ancora imbattuto nel 2011, perse poi la semifinale contro il miglior Federer di sempre.

Montanes un paio d’anni dopo vinse il suo sesto e ultimo titolo ATP, a Nizza, e salutò definitivamente il circuito nel 2017. La giovane strada di Fogna prese viceversa definitivamente il volo nel corso degli anni successivi, e nel 2019, dopo il trionfo di Montecarlo, il talento ligure firmò il best ranking di numero 9. 

Ma quella giornata rimase per sempre la giornata chiave della storia slam dei due tennisti, la giornata dell’occasione mancata, la giornata delle montagne russe, dolci e amare, la giornata in cui il risultato della partita fu in fin dei conti solamente la sconfitta, per entrambi. La giornata di un destino così diverso eppure così simile, la giornata del ritornello francese, da cantare su una gamba sola: “Faute de pied!”

Se è vero che nel bilancio della carriera di un tennista rimane sempre qualcosa tra le pagine chiare e le pagine scure, nella carriera di Fabio Fognini, che oggi compie 37 anni, quel qualcosa è fin troppo facile da mettere a fuoco, e si tratta inevitabilmente della partita con Albert Montanes al Roland Garros del 2011.

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