Muhammad Ali, 100 foto per raccontare una leggenda
È difficile immaginare un personaggio che rappresenti l’universalità dello sport meglio di Muhammad Ali. Chiunque, anche se non ha mai visto tirare un pugno in tutta la sua vita, sa chi era Cassius Clay, diventato Muhammad Ali. Era la perfetta interpretazione della definizione americana del larger than life, più grande della vita stessa, capace di superare confini e regole. Non solo sul ring perché era un peso massimo nell’esistenza come nella boxe.
100 foto in mostra al Pan di Napoli fino al 16 giugno, curata da due giornalisti, Marco Pastonesi e Giorgio Terruzzi capaci più di altri di raccontare le storie dello sport che diventano esempi nella vita.
Muhammad Ali era il più grande e sapeva di esserlo. Sapeva anche che la grandezza non era un’esclusiva dei suoi pugni. Era un uomo moderno come pochi. Era spavaldo e ironico, sempre provocatore, «leggero come una farfalla e pungente come un’ape». Lo era anche quando non riusciva più a muoversi a causa del morbo di Parkinson che lo ha portato alla morte a 74 anni. Lo era perché aveva deciso di mostrarsi anche nella malattia accendendo la fiamma olimpica ad Atlanta nel 1996, lui che le Olimpiadi le aveva vinte a Roma nel 1960 rifiutando quella vittoria per quell’America che non dava diritti a lui nero, orgoglioso di essere nero, ma che lo obbligava a combattere in Vietnam.
«Nella sua storia ci siamo noi, comunque, non importa l’età», scrivono i curatori, «C’è l’America per come la trovò lui, nato nel 1942 a Louisville, Kentucky. Razzista, violenta, in un galoppo da dopoguerra. C’è il ritmo travolgente del jazz che è nero da sempre. C’è la protesta di Martin Luther King e quella più estrema di Malcolm X, dei Musulmani Neri. E c’è la boxe, con i soldi, le scommesse, la mafia, i neri, di nuovo, a fare a cazzotti come attori condannati. Il ring unico lasciapassare».
Da Cassius Marcellus Clay, nome da schiavo che evoca il sud de Il buio oltre la siepe, nel 1964 diventò Muhammad, che significa Degno di Lode, e Ali, Altissimo. Il contrario sempre di certa America di cui è stato comunque simbolo, lui, tre volte campione del mondo, mai un incontro banale. Sessantun match e 548 round da professionista, dal 1960 al 1981. Appena 5 sconfitte. Ali è l’unico massimo nella storia ad avere conquistato il titolo mondiale tre volte: la prima il 25 febbraio 1964 contro Sonny Liston, la seconda il 30 ottobre 1974 contro George Foreman, la terza il 15 settembre 1978 contro Leon Spinks.
«Era un ballerino. Sul ring come se fosse un palcoscenico. Danzava, fluttuava, volava. Sfuggiva, rientrava, eludeva. Sfiorava, colpiva, spariva. C’era e non c’era, c’era e ci faceva, c’era e ci giocava. Giocava, a volte gigioneggiava, spesso giganteggiava. Giocava di anticipo, di rimessa, di fantasia. Giocava come se non fosse la vita o la morte, la borsa o la vita, il campionato del mondo dei pesi massimi. Giocava e si prendeva gioco, giocoso e giocoliere».
Gli avversari li batteva a parole prima che a pugni. «Joe Frazier è troppo brutto per essere campione». Non risparmiava niente a nessuno e non aveva il timore dell’imbrodarsi con le lodi: «Ero così veloce che avrei potuto alzarmi dal letto, attraversare la stanza, girare l’interruttore e tornare a letto sotto le coperte prima che la luce si fosse spenta». Diceva: «Quando si è grandi come lo sono io, è difficile essere modesti». Era tutto consapevolezza: «Dove credete che sarei la settimana prossima se non sapessi fare la voce grossa e farmi notare dal pubblico? Sarei un poveraccio… a lavare vetri o a manovrare un ascensore».
Era invece un conquistatore. Quattro mogli e nove figli. Soprattutto era un conquistatore di persone. Seppe conquistare chi viveva nei suoi pressi al pari di sconosciuti, di persone incontrate per strada, negli studi televisivi, nelle fabbriche, nelle scuole. Dovunque. Chi l’ha frequentato a lungo, a cominciare dai suoi collaboratori, ha espresso ammirazione e amore nei confronti di un uomo fuori da ogni schema. «Quando si tratta di amore, compassione e altri sentimenti del cuore», diceva, «io sono ricco». A David Remnick che stava scrivendo Il re del mondo, libro su di lui edito da Feltrinelli: «So perché è successo tutto questo. Dio mi sta dimostrando che sono solo un uomo come tutti gli altri. Lo sta dimostrando anche a te. In modo tale che tu possa imparare dal mio esempio».
Al Pan sono in mostra, a raccontare questa vita, cento immagini provenienti dai più grandi archivi fotografici internazionali fra cui New York Post Archives, Sygma Photo Archives, The Life Images Collection.