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Il viaggio di Omar Sy, dal Senegal a Hollywood

L'attore di «Quasi amici» ha girato un film ambientato nel Paese da cui è partito suo padre, e dove lui è tornato con i suoi figli. Lo abbiamo intervistato

Se n’era dimenticato, stamattina – ora di Los Angeles – stava così bene che non pensava più al nostro appuntamento telefonico. Se l’è ricordato all’improvviso, e adesso continua a scusarsi e a ridere. Omar Sy ha una simpatia esuberante, come sullo schermo dove lo si vede sorridere in continuazione a trentadue denti, così anche fuori dalla fiction comunica immediatamente empatia. 41 anni, un successo che gli ha ribaltato la carriera (Quasi amici, del 2011), da qualche tempo l’attore cresciuto in Francia, figlio di padre senegalese e di mamma mauritana, ha reimpiantato la sua vita in California. Ma anche se ormai è diventato una star da blockbuster – X-Men, Jurassic World, Inferno – spesso alterna i «titoloni» a film più piccoli, che però lo toccano particolarmente. È successo con Il viaggio di Yao, che esce il 4 aprile, dove interpreta un famoso attore che dalla Francia va in Senegal a presentare la sua autobiografia e lì incontra un ragazzino – lo Yao del titolo, l’undicenne Lionel Basse – con cui scoprirà il Paese delle proprie origini. E con il quale instaurerà un rapporto paterno che lo aiuterà poi anche a migliorare quello con il vero figlio, rimasto a casa.

Lei è già stato padre in Famiglia all’improvviso – Istruzioni non incluse, prossimamente la rivedremo con una figlia cinematografica nel film di Michel Hazanavicius Le prince oublié. Per interpretare queste parti, si ispira alla sua vita, dove è papà di cinque ragazzi?
«Non proprio. Yao non è mio figlio, ma per me è stato comunque interessante esplorare il legame che si è creato: il mio personaggio nel film non sa come essere davvero un buon padre, ha un rapporto molto difficile con la sua ex. Questo per fortuna non è il mio caso, così è stato interessante studiarlo e cercare di capire come potrebbe essere: mi ha incuriosito molto».

Nella realtà, che padre è?
«Non lo so, dovrebbe chiederlo ai miei figli. Quando erano piccoli, mi piaceva giocare con loro. Ma mi è difficile dire di più, forse lo capirò quando saranno adulti, che padre sono stato».

Com’è stato recitare con Lionel, che è stato scelto in Senegal su un casting di 600 ragazzini e che non aveva mai lavorato al cinema?
«È andata molto bene. Mi piace quando recito con i bambini e con chi non è un attore, perché vedi venir fuori qualcosa di speciale. Lionel all’inizio era semplicemente un bambino, e alla fine è venuto fuori un attore».

Il Senegal è il Paese di origine di suo padre: che cosa le ha insegnato lui di quella cultura?
«Molte cose. Soprattutto mi ha insegnato l’importanza delle storie che vengono tramandate attraverso la trasmissione orale degli anziani. E questo è il motivo per cui in Africa tutti i vecchi sono molto rispettati, perché loro sono depositari della conoscenza».

Quando è stata la prima volta che ha visitato il Senegal?
«A sei anni, nel 1984».

La prima impressione che ricorda?
«Faceva caldissimo e c’era una luce molto forte. E ricordo che volevo fare come gli altri bambini e camminare a piedi scalzi, così mi sono tolto le scarpe e… mi sono bruciato i piedi. È per questo che ho fatto inserire una scena simile nel film».

E la prima volta con i suoi figli?
«Erano piccoli, loro non ricordano. Ma io ero molto orgoglioso di mostrare il Paese di mio padre».

Lei in Senegal è famoso?
«Sì, me ne sono accorto quando giravamo, avevo sempre molta gente intorno, e mi hanno accolto benissimo».

Nel film è chiamato Bounty, come lo snack: nero fuori e bianco dentro. Si riconosce nell’immagine?
«A me non è mai successo. Però, certo: può accadere che tu non venga accolto bene nel Paese dove sei nato, o dove è nato tuo padre, e che alla fine non ti trovi a casa tua da nessuna parte».

Non le è capitato di non sentirsi nel posto giusto?
«Mai. Io mi sento sempre bene, in ogni posto. Anche nel suo Paese, ci ho vissuto quando giravo Inferno ed era come se fossi a casa».

Non so se adesso si sentirebbe ancora a casa…
«So quello che succede in Italia. Ma anche in questo caso penso che stia a noi la possibilità di lottare e cambiare il modo in cui si guardano le cose».

Quando era più giovane e meno famoso è mai stato oggetto di razzismo?
«Certo che sì, ma non con offese o aggressioni. Erano cose più piccole. Ricordo quando andavo a scuola e tutti volevano toccare i miei capelli, dicevano che erano diversi dai loro e volevano capire come ci si sentiva a toccarli. Ecco, questo mi faceva sentire diverso».

Essere diverso era un bene o un male?
«Era solo qualcosa di speciale, facevo molte domande ma ricevevo tante di quelle risposte diverse che alla fine mi sentivo ancora più strano».

È stato scelto per girare la serie Netflix Arsene Lupin, il «ladro gentiluomo» che negli anni Settanta fu interpretato da Georges Descrières.
«Non pensavo certo al colore della pelle quando ho accettato di farlo. Interpretare personaggi fatti in passato da attori bianchi forse può servire a combattere i pregiudizi, ma io credo che la cosa migliore sia semplicemente essere me stesso».

Ha detto che chi ha successo è un sognatore: qual è il suo sogno?
«Sto vivendolo il mio sogno, oggi. Mi sveglio la mattina sapendo che farò ciò che voglio, potrò scegliere cose interessanti, avrò grandi opportunità, ci sono anche persone che mi intervistano».

Più opportunità a Los Angeles che a Parigi?
«Non è tanto quello. È che a me piace il modo di vivere qui. E poi c’è una natura fantastica…».

C’è meno razzismo che in Europa?
«Non penso di essere la persona giusta per parlarne, perché non tocca me: io sono famoso, mi trovo in una posizione privilegiata».

È per questo che sorride così spesso?
«Il sorriso è il mio tratto distintivo. Non dico che funzioni sempre con tutti, ma è il mio modo di essere e combattere».

Una strategia vincente, vista la quantità di film che adesso si trova a fare.
«Sono fortunato e ricevo tante belle proposte, e allora: perché no? Adesso giro il nuovo film di Anne Fontaine, con Virginie Efira».

Ha da poco compiuto 41 anni, quello dei 40 è stato un passaggio pesante?
«Non per me. Non vedo molto la differenza. Anzi no, me ne accorgo sul set: fino a poco tempo fa ero sempre io il più giovane, adesso non più, mi fa sentire un po’ più vecchio».

Potrebbe fare il maestro.
«Non credo che sarei un buon maestro, l’ho visto con Lionel. L’unico insegnamento che sono riuscito a dargli è stato: cerca di restare giovane, cerca sempre di divertirti, anche nei momenti di difficoltà devi trovare il modo di godertela».

Si aspettava che Quasi amici le avrebbe cambiato così tanto la vita?
«Certo che no. Chi lo avrebbe mai detto che mi sarei trasferito a Los Angeles, che avrei fatto tutti questi film, in Senegal, in Italia, nel mondo? Non lo sai mai, accetti perché ti interessa la storia, ti fa piacere interpretarla. Sono stato il primo a stupirsi di ciò che è accaduto dopo. E anzi, credo che le cose migliori avvengano proprio quando non te le aspetti. È sempre un dono fare bei film».

Insomma, è un uomo felice.
«Chi non lo sarebbe al posto mio? So il privilegio che mi è toccato».

Ha anche vinto un César, l’Oscar francese, primo attore nero a ottenere la statuetta.
«Ma non voglio che la gente mi guardi come un uomo nero o un attore nero: no, io sono un attore, sono un uomo».

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